Quando cerco di spiegare
perché la morte di David Bowie mi abbia colpita come ha fatto, mi
viene sempre da dire che “la mia fantasia ha la forma del Re di
Goblin”, personaggio che Bowie ha interpretato in
Labyrinth,
film diretto da
Jim Henson nel 1986. Non ho idea di quando l'abbia
visto la prima volta, è uno dei film con cui sono cresciuta, insieme
a Ritorno al futuro e a La storia infinita. Vai a sapere a quando
risale la prima visione. Il fatto è che Labyrinth è rimasto, in
tutti questi anni, il mio film preferito; distanzia tutto il resto,
forse proprio perché quando l'ho visto ero così piccola che il mio
cervello era ancora molle e malleabile, e ha potuto organizzarsi
esattamente nella forma prevista dal film.
Ad ogni modo, non voglio
chiacchierare di David Bowie o di quanto io abbia adorato Labyrinth.
Piuttosto, vorrei parlare del perché lo trovo tuttora un capolavoro.
Tanto per cominciare,
Labyrinth racconta due storie parallele. Una immediata, che è quella
di Sarah, una ragazzina insopportabile che “per errore” fa sì
che il fratellino venga rapito dai Goblin solo per dispensarla dai
suoi doveri di sorella maggiore e baby-sitter. L'altra, è quella di
una ragazza che non vuole crescere, e ha luogo nella sua testa.
La prima storia, quella
immediata, è puro fantasy. La nostra eroina parte per un viaggio per
la salvezza del fratellino, attraverso traversie innumerevoli in un mondo fantastico; le sono state concesse tredici ore per
raggiungere il castello nel Labirinto, “oltre la città di Goblin”.
Durante il viaggio incontra diversi amici, personaggi improbabili
come Gogol, Bubo, Sir Didimus. Riuscirà nell'impresa? La risposta è
abbastanza ovvia, ma do per scontato che qualcuno prima o poi
capiterà da queste parti senza averlo ancora visto, quindi taccio.
Trattasi comunque del “viaggio dell'eroe”, una struttura
narrativa nota, già percorsa.
La seconda storia,
invece, è sparsa nella prima. Mi sono resa conto della sua presenza
solo pochi anni fa, quando l'ho rivisto dopo tanto tempo – ho sempre
voglia di guardare Labyrinth, ma lascio trascorrere un minimo di
tre/quattro anni tra una visione e l'altra per non rovinarmelo
troppo, anche se ormai lo conosco a memoria – su uno schermo ben
più grande di quello a casa dei miei genitori, dove l'avevo sempre
visto. Mi è apparso evidente il riferimento del poster di Escher
sulla parete di Sarah, chiaramente ripreso nella scena dello “scontro
finale”; ho finalmente notato la statua del Re di Goblin sulla
scrivania di Sarah, e aggiungerla a tutti quei collegamenti cui fino
ad allora non avevo mai dato troppo peso. I pupazzi di Bubo, di Sir
Didimus, il vestito della ballerina del carillon, la statuina di
Gogol. Il gioco del labirinto. Aggiungasi a tutto questo un set di
D&D, libri fantasy per ragazzi.
La seconda storia
racconta di una ragazza che non vuole crescere, ancorata con le
unghie alla propria infanzia. Che si comporta con la madre acquisita
come se fosse una matrigna delle favole, perché non vuole lasciare
il mondo delle favole. E già questo, di per sé, è abbastanza
interessante. Jareth è un'espressione di Sarah, che vuole
costringerla a rimanere la ragazzina che è, sollevandola da ogni
responsabilità, al comodo prezzo dell'odiato fratellino. Adoro il
fatto che lo spettatore possa scegliere a quale storia dare ascolto,
se sceglierne una o se fonderle insieme. Io, personalmente, le fondo
insieme. Il fatto che il Labirinto si trovi nella testa di Sarah, non
ne impedisce la presenza altrove.
Quello che ho amato
particolarmente di questo film è il finale. Tanto per cominciare il
fatto che
SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER Sarah non si
arrenda a Jareth. Labyrinth non è una specie di romance; ogni tanto
penso che se dovessero rifarlo oggi, tra Sarah e Jareth ci sarebbe
uno smielato lieto fine, e dubito che potrei sopportarlo. Labyrinth è
così potente proprio perché Sarah comprende che il re di Goblin
“non ha nessun potere su di lei”.
Un altro aspetto del
finale che trovo importante è il fatto che concluda entrambe le
storie, soprattutto la seconda, quella sulla crescita personale di
Sarah. ANCORA SPOILER. Sola nella sua stanza, tornata dal viaggio,
Sarah mette via alcuni dei suoi giocattoli. Ha perfino portato
Lancillotto, il suo orsacchiotto preferito, al fratellino che dorme
beato. Sembra che voglia dare addio a tutto, che si chiuda alle
spalle, per sempre, tutto il Labirinto, e che si accinga a percorrere
una vita di serietà, priva di magia e immaginazione. Ma poi guarda
nello specchio, e sappiamo come va.
La morale di Labyrinth,
se davvero dobbiamo trovarne una, sta anche e soprattutto in questa
scena, nella posizione che prende nei confronti della fantasia come
parte integrante della vita delle persone, a prescindere dall'età. Un arto aggiuntivo che
sarebbe doloroso quanto inutile staccare. Privarsene, per che cosa?
A volte penso a tutti i
significati che potremmo dare alla formula “diventare adulti”.
Quando avevo l'età di Sarah mi chiedevo come sarebbe stato crescere,
se avrei iniziato ad apprezzare il vino e a vestirmi decentemente, se
avrei cambiato le mie letture, se avrei smesso di cantare motivetti
stupidi inventati sul momento. Si capisce solo arrivati a una certa
età – e penso proprio di esserci arrivata – che crescere non ha
nulla a che vedere con la rinuncia, ma con l'accettazione del mondo
al di fuori dalla propria stanza, e delle responsabilità che
comporta. Che si può essere adulti perfettamente funzionali e ballare sulle note di Magic Dance.
Tralasciamo le mille
meraviglie aggiuntive di Labyrinth: le ambientazioni, la colonna
sonora, i burattini, le maschere, i dialoghi, i personaggi come il
verme e il coprisaggio. È un film che non si può non vedere, che
diamine. Gora dell'eterno fetore a chi ne fa a meno.