martedì 16 febbraio 2016

Labyrinth

Quando cerco di spiegare perché la morte di David Bowie mi abbia colpita come ha fatto, mi viene sempre da dire che “la mia fantasia ha la forma del Re di Goblin”, personaggio che Bowie ha interpretato in Labyrinth, film diretto da Jim Henson nel 1986. Non ho idea di quando l'abbia visto la prima volta, è uno dei film con cui sono cresciuta, insieme a Ritorno al futuro e a La storia infinita. Vai a sapere a quando risale la prima visione. Il fatto è che Labyrinth è rimasto, in tutti questi anni, il mio film preferito; distanzia tutto il resto, forse proprio perché quando l'ho visto ero così piccola che il mio cervello era ancora molle e malleabile, e ha potuto organizzarsi esattamente nella forma prevista dal film.
Ad ogni modo, non voglio chiacchierare di David Bowie o di quanto io abbia adorato Labyrinth. Piuttosto, vorrei parlare del perché lo trovo tuttora un capolavoro.
Tanto per cominciare, Labyrinth racconta due storie parallele. Una immediata, che è quella di Sarah, una ragazzina insopportabile che “per errore” fa sì che il fratellino venga rapito dai Goblin solo per dispensarla dai suoi doveri di sorella maggiore e baby-sitter. L'altra, è quella di una ragazza che non vuole crescere, e ha luogo nella sua testa.
La prima storia, quella immediata, è puro fantasy. La nostra eroina parte per un viaggio per la salvezza del fratellino, attraverso traversie innumerevoli in un mondo fantastico; le sono state concesse tredici ore per raggiungere il castello nel Labirinto, “oltre la città di Goblin”. Durante il viaggio incontra diversi amici, personaggi improbabili come Gogol, Bubo, Sir Didimus. Riuscirà nell'impresa? La risposta è abbastanza ovvia, ma do per scontato che qualcuno prima o poi capiterà da queste parti senza averlo ancora visto, quindi taccio. Trattasi comunque del “viaggio dell'eroe”, una struttura narrativa nota, già percorsa.
La seconda storia, invece, è sparsa nella prima. Mi sono resa conto della sua presenza solo pochi anni fa, quando l'ho rivisto dopo tanto tempo – ho sempre voglia di guardare Labyrinth, ma lascio trascorrere un minimo di tre/quattro anni tra una visione e l'altra per non rovinarmelo troppo, anche se ormai lo conosco a memoria – su uno schermo ben più grande di quello a casa dei miei genitori, dove l'avevo sempre visto. Mi è apparso evidente il riferimento del poster di Escher sulla parete di Sarah, chiaramente ripreso nella scena dello “scontro finale”; ho finalmente notato la statua del Re di Goblin sulla scrivania di Sarah, e aggiungerla a tutti quei collegamenti cui fino ad allora non avevo mai dato troppo peso. I pupazzi di Bubo, di Sir Didimus, il vestito della ballerina del carillon, la statuina di Gogol. Il gioco del labirinto. Aggiungasi a tutto questo un set di D&D, libri fantasy per ragazzi.
La seconda storia racconta di una ragazza che non vuole crescere, ancorata con le unghie alla propria infanzia. Che si comporta con la madre acquisita come se fosse una matrigna delle favole, perché non vuole lasciare il mondo delle favole. E già questo, di per sé, è abbastanza interessante. Jareth è un'espressione di Sarah, che vuole costringerla a rimanere la ragazzina che è, sollevandola da ogni responsabilità, al comodo prezzo dell'odiato fratellino. Adoro il fatto che lo spettatore possa scegliere a quale storia dare ascolto, se sceglierne una o se fonderle insieme. Io, personalmente, le fondo insieme. Il fatto che il Labirinto si trovi nella testa di Sarah, non ne impedisce la presenza altrove.
Quello che ho amato particolarmente di questo film è il finale. Tanto per cominciare il fatto che SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER Sarah non si arrenda a Jareth. Labyrinth non è una specie di romance; ogni tanto penso che se dovessero rifarlo oggi, tra Sarah e Jareth ci sarebbe uno smielato lieto fine, e dubito che potrei sopportarlo. Labyrinth è così potente proprio perché Sarah comprende che il re di Goblin “non ha nessun potere su di lei”.
Un altro aspetto del finale che trovo importante è il fatto che concluda entrambe le storie, soprattutto la seconda, quella sulla crescita personale di Sarah. ANCORA SPOILER. Sola nella sua stanza, tornata dal viaggio, Sarah mette via alcuni dei suoi giocattoli. Ha perfino portato Lancillotto, il suo orsacchiotto preferito, al fratellino che dorme beato. Sembra che voglia dare addio a tutto, che si chiuda alle spalle, per sempre, tutto il Labirinto, e che si accinga a percorrere una vita di serietà, priva di magia e immaginazione. Ma poi guarda nello specchio, e sappiamo come va.
La morale di Labyrinth, se davvero dobbiamo trovarne una, sta anche e soprattutto in questa scena, nella posizione che prende nei confronti della fantasia come parte integrante della vita delle persone, a prescindere dall'età. Un arto aggiuntivo che sarebbe doloroso quanto inutile staccare. Privarsene, per che cosa?
A volte penso a tutti i significati che potremmo dare alla formula “diventare adulti”. Quando avevo l'età di Sarah mi chiedevo come sarebbe stato crescere, se avrei iniziato ad apprezzare il vino e a vestirmi decentemente, se avrei cambiato le mie letture, se avrei smesso di cantare motivetti stupidi inventati sul momento. Si capisce solo arrivati a una certa età – e penso proprio di esserci arrivata – che crescere non ha nulla a che vedere con la rinuncia, ma con l'accettazione del mondo al di fuori dalla propria stanza, e delle responsabilità che comporta. Che si può essere adulti perfettamente funzionali e ballare sulle note di Magic Dance.
Tralasciamo le mille meraviglie aggiuntive di Labyrinth: le ambientazioni, la colonna sonora, i burattini, le maschere, i dialoghi, i personaggi come il verme e il coprisaggio. È un film che non si può non vedere, che diamine. Gora dell'eterno fetore a chi ne fa a meno.

sabato 6 febbraio 2016

L'estate segreta di Babe Hardy di Fabio Lastrucci

L'estate segreta di Babe Hardy di Fabio Lastrucci, pubblicato da Dunwich nel 2013. Non è un libro facile da descrivere. Tanto per cominciare, nonostante la trama principale sia piuttosto lineare e veda come protagonisti Stan Laurel e Oliver Hardy (Stanlio e Ollio, proprio loro) affetti da una forma fastidiosa e invalidante di vampirismo, sono presenti un buon tot di personaggi di contorno, che arricchiscono la storia e smuovono, direttamente o indirettamente, le cose per i nostri pallidi protagonisti. A volte non è poi chiaro cosa vogliano, né cosa li muova. È chiaro che il delinquentello da strapazzo Lefty Miracle non abbia poi un piano specifico, e che tutto ciò che vuole è raccogliere un po' di soldi. Eppure riesce in un paio di occasioni a intersecare le linee narrative degli attori principali, senza neanche rendersene conto. C'è Bela Lugosi, principale sospettato del contagio, col suo accento farlocco e i suoi servitori cinesi. C'è il tenente Nunnaly, che vorrebbe arrivare in fondo alla faccenda a quella maniera tipica dei film gangster americani che fuori dalle sale appare decisamente ridicola. C'è Douglas Fairbanks con la moglie Mary Pickford, due celebri attori del muto. E c'è un dottore tedesco che segue le tracce dell'infezione vampirica.
Questo libro è tante cose. È un inno al cinema americano degli anni '30, con cammei e citazioni. Lastrucci afferma di averne disseminati almeno una trentina, e io dubito di averli riconosciuti tutti. Anzi. Ed è anche una raffigurazione meno smagliante, meno innocente e più squallida del solito della Hollywood degli anni '30.
È anche e soprattutto una storia comica, e il comico agisce secondo diversi meccanismi. Primo fra tutti il fatto che i personaggi reagiscono in maniera credibile a un fatto incredibile. Non si struggono nei loro mantelli, filosofeggiando sull'umana sorte, né sentendosi esclusi e “altri” rispetto al mondo di cui avevano fatto parte fino al contagio. Ogni volta che qualcuno – di solito Hardy – vira verso il teatrale, c'è sempre qualcuno o qualcosa pronto a riportarlo coi piedi per terra. E il contrasto tra irreale e reale si sente. Un altro strumento della comicità sono i dialoghi, che ho gradito moltissimo. I personaggi scherzano, si rimbeccano, litigano, svicolano. E poi c'è l'assurdità delle situazioni, che viene spesso portata all'estremo. Il fatto che non disturbi e che non cozzi mai contro la sospensione dell'incredulità dipende almeno in parte, secondo la mia modesta opinione, dall'ambientazione hollywoodiana, in cui per cinematografica abitudine tutto ci risulta possibile, pure l'irrazionale.
Lo stile che accompagna le vicende è preciso, non invasivo, e allo stesso tempo leggero. Si lega perfettamente al tono che l'autore vuole dare alle vicende, quello di un prospettiva un po' slapstick che non si può prendere sul serio.
Personalmente non posso affermare di sapere alcunché su che tipo di persone fosser Stan Laurel e Oliver Hardy. Qui, come personaggi, funzionano eccome. Hardy è goffo e ingenuo, Stan è il pragmatico calcolatore. Entrambi bevono, si punzecchiano, vanno a donne. È strano pensare agli Stanlio e Ollio dei film che guardavo da piccola come a persone vere, ricche e volgari, al rapporto disastrato che hanno con le rispettive famiglie. È strano, ma funziona.

Va da sé che consiglio moltissimo questo libro. Forse non ai fedeli dei vampiri vecchio stampo, ma diamine se lo consiglio.

giovedì 4 febbraio 2016

I segreti di Heap House di Edward Carey

I segreti di Heap House, scritto e illustrato da Edward Carey, tradotto – assai bene – da Sergio Claudio Perroni, edito da Bompiani, primo volume della trilogia dedicata a Heap House. Sin da quando è uscito ho preso a rimirarlo e soppesarlo ogni volta che me lo trovavo davanti in libreria, senza mai decidermi a prenderlo. Il fatto è che quando mi trovo davanti a una copertina così convincente e a una trama così interessante... beh, non mi fido. Troppo bello per essere vero, c'è sicuramente la magagna. E nonostante abbia continuato per mesi a chiamarmi e a incuriosirmi, mi sono decisa a prenderlo soltanto quando (fortuna delle fortune) l'ho trovato a metà prezzo sul sito del Libraccio.
Ed è un libro fantastico. È esattamente quello che promette. Dark nel senso più tetro e turpe, senza svenevolezze, ma pieno di sofferenza e squallore, itterizia, aria fetida, atmosfere claustrofobiche che non lasciano filtrare la minima speranza. Sono d'accordissimo con chiunque l'abbia definito Burtoniano, e aggiungo che è da riferirsi alla produzione più gotica e scura del regista. L'atmosfera mi ha ricordato  moltissimo La sposa cadavere, coi suoi ambienti scuri, i colori che variano appena dal nero al blu, i personaggi intrappolati in una trama crudele.
Arduo arrivare al dunque senza svelare troppo, perché è bello scoprire il contesto mano a mano che viene raccontato, poco a poco. Non è nemmeno del tutto chiaro, a pensarci bene, in che razza di mondo si trovi Heap House, se sia vicino al nostro o a una sua versione vagamente steampunk. Immagino che si scoprirà nelle prossime puntate. Che non vedo l'ora di agguantare.
C'è la famiglia degli Iremonger, antica, prospera, ricca. Vive a Heap House, al centro di un'immensa discarica, pericolosissima in quanto i cumuli di rifiuti si muovono, crollano, rischiano di sommergere chiunque vi si trovi in mezzo. E in questa strana famiglia ci si sposa soltanto tra cugini, e si vive tutti insieme a Heap House, che ha continuato ad allargarsi annettendo pezzi di Londra trascinati via chissà come, e imbullonati alla casa. Gli Iremonger sono orgogliosi del proprio sangue, e disprezzano il resto del mondo, che comunque non li apprezza granché. Alla nascita, a ognuno viene attribuito un oggetto natale, dal quale non si separerà mai, e che racconterà molto sul carattere di chi lo possiede.
Clod Iremonger, il protagonista, si porta dietro un tappo da vasca. Clod è strano, anche per essere un Iremonger. Sente le voci degli oggetti, li sente ripetere un nome, uno per oggetto. Il suo tappo, ad esempio, continua a ripetere “James Henry Hayward”, mentre il rubinetto del cugino e unico amico Tummis ripete “Hilary Evelyn Ward-Jackson”. La narrazione è in prima persona, e si alterna tra Clod e Lucy Pennant, una ragazzina orfana che viene presa a servizio a Heap House. Così da un lato scopriamo come vivono gli Iremonger “puri”, e dall'altro Lucy ci racconta com'è lavorare a Heap House.
E poi iniziano a succedere cose strane, strane perfino per Heap House. Oggetti che scompaiono, che si muovono. E a ben vedere non assistiamo a vere e proprie indagini su quello che succede. Né Clod né Lucy sono personaggi d'azione. Lucy, al massimo, gironzola dove e quando non dovrebbe, piuttosto che limitarsi a pulire i caminetti. È un libro in cui le cose capitano, spinte dalle circostanze, da eventi esterni, da personaggi secondari. Clod è preoccupato per il fragile cugino Tummis, per le proprie nozze obbligate con la cugina Pinalippy, per il gabbiano scomparso. Ha pausa del cugino Moorcus, si pone giusti quesiti sulle voci degli oggetti, ma si lascia perlopiù trasportare. Lucy parla con le altre domestiche, si guarda attorno stupita dall'ambiente bizzarro in cui si ritrova, parla dei cumuli di rifiuti, gironzola per Heap House fino a incontrare Clod.
Penso che sia uno dei lati del romanzo che non mi sono accorta di aver apprezzato tanto finché non ho iniziato a pensarci, proprio adesso che ne sto scrivendo. Il fatto che la trama non si dispieghi forzata dai personaggi principali, ma sia piuttosto una storia che accade prima in sottofondo per emergere in superficie e farsi imponente. Lo trovo più realistico, ecco, e adatto a un'atmosfera immobile come quella di Heap House.
Ho adorato i personaggi, tutti, anche quelli che compaiono appena. Soprattutto quelli spiacevoli. Pinalippy, ad esempio, e i vari zii di Clod. Sono tutti particolarissimi, ed è davvero interessante il legame che hanno coi propri oggetti natale, così come è affascinante il rapporto tra gli Iremonger e la discarica.
Mi piacciono moltissimo le illustrazioni che inaugurano i capitoli e raffigurano vari membri della famiglia. Continuo a pensare che sarebbe bellissimo se Tim Burton prendesse ispirazione da questo libro, ne uscirebbe qualcosa di meraviglioso. E crudele.


lunedì 1 febbraio 2016

Intervista a Virginia De Winter




  1. Come mai hai scelto di pubblicare sotto pseudonimo? E come mai proprio 'Virginia de Winter?
Mi piace la mia vita e, arrivato il momento di pubblicare, ho temuto che qualcosa potesse turbarla – anche solo un'occhiata curiosa da parte delle persone che conoscevo da sempre. Del resto, nemmeno quando si è trattato di pubblicare fanfiction ho voluto usare altro che non fosse il nome di penna “Savannah”. Le domande, anche fatte da quelle poche persone al corrente, mi mettono in difficoltà e mi innervosisco. Preferisco continuare come se nulla fosse successo e scrivere come sempre ho fatto, tranquilla e senza che a nessuno importasse.
  1. Quali libri ti hanno formata come scrittrice?
Troppi per elencarli tutti. Principalmente però la maggiore influenza sul mio immaginario e sulla mia narrazione l'ha avuta Anne Rice con le sue Cronache dei Vampiri e con il ciclo delle Streghe di Mayfair, poi mi vengono in mente i libri di Marion Zimmer Bradley, quelli di J.K. Rowling; Beppe Fenoglio del quale adoro la prosa (secondo me ha un uso della lingua italiana di un pregio unico); ho anche cercato di imparare il ritmo di narrazione di Cassandra Clare (un'altra autrice che mi piace moltissimo); Stendhal, Libba Bray. Non c'è un ordine, né un senso preciso. Ogni autore è la summa di quello che ha amato, credo.
  1. Quand'è stata la prima volta che ti sei detta 'Magari scrivo'?
Troppo piccola per aver formulato il pensiero con lucidità. L'ho fatto e basta. Avevo un diario come molte bimbe, rosa a fiorellini e con il lucchetto. Non ci ho mai messo il resoconto di una giornata nè i miei pensieri, scrivevo storie e, dopo qualche tempo, dal diario si sono trasferiti su un quaderno e poi su fogli A4 e alla fine su un computer.
  1. Come sono nati i tuoi personaggi e che rapporto hai con loro?

Hai un'idea, a un certo punto li visualizzi e basta, come una persona che conosci superficialmente e di cui hai solo un'impressione. Ashton Blackmore di Black Friars l'ho visto per la prima volta sul cornicione di un palazzo con la Vecchia Capitale ai suoi piedi, una distesa di notte di luci fioche; Sebastian Fane invece camminava per strada con un bastone in mano e la consueta aria scostante. Stephen Eldrige era un bambino troppo geniale per essere tranquillo, Tess Steeval una fanciulla che sorrideva per nascondere i suoi segreti. Li amo tutti, mi mancano sempre, non passa un solo giorno senza che pensi a loro.
  1. Quali sono le condizioni ideali per scrivere?
Tutte. Ho scritto in ogni dove: treno, metropolitana, cucina, camera, studio. Davanti alla televisione che trasmette serie tv a ripetizione, in cucina o in salone mentre tutti chiacchierano. Il silenzio mi distrae, non riesco a combinare nulla ma le persone non devono parlare con me mentre scrivo: quello mi fa impazzire dal nervoso, ho proprio ondate di collera. L'unica condizione è non essere davanti a un panorama o all'aperto. Lì mi distraggo e non riesco a combinare niente.
  1. Ho sempre pensato che la Vecchia Capitale si ispirasse a Roma, ma forse mi sbaglio...
La Vecchia Capitale si ispira a un sacco di posti. Principalmente a Palermo quando si tratta della Cittadella, di Salimarr e dell'omonimo borgo e anche di parte della Cittadella che però principalmente è ispirata a Venezia. Una parte però è sicuramente ispirata alla Roma dei Papi, specialmente le parti riguardanti il Borgo di Maderian. La Sedia del Diavolo, per esempio, esiste davvero, si trova nel quartiere africano.
  1. C'è qualcosa che vorresti cambiare/correggere nei tuoi libri?
Parecchio, niente, non tutto. In fondo se non li avessi scritti così non avrei imparato tante cose. Mi piace il percorso che ho fatto fino al momento.
  1. Credo che a leggerti sia chiaro quanto ti diverti a scrivere. Questo ti ha portato a tagliare/correggere/riscrivere molto, oppure metti il tuo gradimento prima di tutto?
Scrivo in unica stesura, correggo le parti di trama che non collimano a mano a mano che lavoro, ma non riscrivo a meno che qualcuno non mi dica che c'è da ritoccare qualcosa. Già sono prolissa di mio e quando riscrivo tendo ad allargarmi ulteriormente. Ultimamente ho imparato a tagliare ma chi scrive e chi legge non è mai d'accordo su quale parte sia superflua.
  1. Leggeremo ancora della Vecchia Capitale, o il mondo di Black Friars è ormai chiuso?
Come ti dicevo prima i miei personaggi mi mancano tutti i giorni. Ho lasciato l'epilogo della Croce aperto appositamente. Quello è un mondo a cui non sarò mai capace di dire addio.
  1. Stai scrivendo qualcosa, adesso? E se sì (imploro che sia un sì) qualche anticipazione...?
Non posso ancora, mi dispiace. Il prossimo libro uscirà con Mondadori e, non appena ne avrò la possibilità, darò qualche notizia in merito. Posso dirti che la lavorazione, almeno da parte mia, è a buon punto. Tolto questo libro, ho in ballo circa mille cose, che vanno dal romantic suspense al giallo vero e proprio; il mio debole per il romanzo vittoriano penso sia palese e diciamo che sto dando corso anche a quello!
  1. Come inizia e come procede il tuo processo creativo? Inizia tutto da una scena, da un personaggio, da uno spunto...?
Da uno spunto. Due informazioni apparentemente scollegate che vagano nei meandri del mio cervello si legano e la cosa mi pare talmente logica e sensata che non mi spiego come io abbia potuto non pensarci prima.
  1. Come ti è andata con gli editori e cosa consiglieresti agli aspiranti scrittori?
Mi è andata abbastanza liscia perché un'editor della Fazi mi ha trovata on line e per anni ho lavorato sempre con lei andadoci d'accordissimo. Quanto ai consigli sono ancora nella fase di chi ne cerca e non mi sento nella posizione di darne, fuorché uno che riguarda anche me stessa: armiamoci di santa pazienza e di una forte motivazione.
  1. La critica più assurda che ti sia mai stata fatta.
Le critiche non sono mai assurde, hanno perfettamente senso per chi le fa. Però una mi ha fatto ridere di cuore: una ragazza disse che il cognome Weiss di Eloise era voluto per creare un contrappunto con il “Black” di Blackmore. Ho impiegato venti minuti a capire. Non ho voluto deluderla dicendole che il nome e il cognome di Eloise in realtà derivano dal pattinaggio di figura.
  1. Ci sono scrittori che vorresti leggessero i tuoi libri?
Va bene chi li legge già.
  1. Ti è mai capitato di leggere un libro scritto così bene da farti pensare 'Non ce la farò mai'?
Almeno otto volte su dieci quando ne apro uno. Se poi è di Cassandra Clare io aggiungo tra me e me: chissenefrega, l'importante è che li scriva lei così li posso leggere io!
  1. Sinceramente: quali dei tuoi personaggi preferisci? Io adoro Bryce e Stephen oltre l'umana comprensione.
Stephen è il mio tesoro, infatti ho demandato a lui il compito per me molto doloroso di chiudere l'Ordine della Croce. Bryce Vvandemberg è il mio punto di vista nei miei libri, forse quello che per logica mi somiglia di più; poi c’è Axel Vandemberg, come il Draco Malfoy delle mie fanfiction è l’interlocutore privilegiato dei miei momenti cupi.
  1. Mi consiglieresti un libro?
Penny Parrish, in America si vive così, di Janet Lambert, attrice che in seguito si è messa a scrivere libri per ragazzi e che ha prodotto una lunghissima serie di volumi dedicati a questa saga e a quelle “collaterali” alla famiglia Parrish. E' la storia di un'America a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, simile alle vecchie commedie che di tanto in tanto passano in televisione. E' difficile da trovare ma qualche biblioteca dovrebbe ancora averlo.
  1. Domanda un po' Marzulliana ma che ho molto cara: da dove credi che vengano le storie?
Sono archetipi. Preesistono a tutte le maniere di esprimerle, si scoprono e riscoprono ogni giorno, ognuno ne fornisce la sua versione; poi si dimenticano e si ricomincia da capo.