domenica 31 gennaio 2016

Raffles di E. W. Hornung

E dunque, non è facilissimo iniziare a parlare di questo libro. Intanto è la raccolta dei racconti che E. W. Hornung ha scritto sul finire dell'800 su Raffles, un ladro gentiluomo tra i primi nel suo genere. È un peccato inspiegabile che il personaggio e l'autore siano caduti nell'oblio, e c'è da benedire infinitamente CasaSirio per averli portati in Italia, nella traduzione di Chiara Bonsignore.
Da dove potrei cominciare a parlare di questo libro? Dicendo che l'autore era il cognato di Arthur Conan Doyle, e che quest'ultimo adorava e deprecava insieme le opere di Hornung perché “Il criminale non dovrebbe mai essere l'eroe”? Oppure dal personaggio di Raffles, genuinamente sociopatico, nel suo non curarsi della moralità delle proprie azioni, nella curiosità con cui ne osserva le conseguenze? O da Bunny, il suo fedele, per quanto talvolta riluttante, compagno d'avventure?
Mi viene spontaneo partire da Sherlock Holmes, a cui Raffles sicuramente deve moltissimo. È un po' come se Hornung avesse preso le storie di Arthur Conan Doyle per stravolgerle sotto ogni aspetto. La struttura è davvero simile, dopotutto. Raffles e Bunny vivranno insieme, Bunny sarà il fedele aiutante del ladro, nonché colui che trascriverà i racconti delle loro avventure. Ma oltre a questo, Raffles e Bunny non hanno molto a che vedere con Sherlock e il dottor Watson. Raffles è del tutto privo di morale, adora il brivido del furto, si diletta nello sport, è un affascinante manipolatore. Bunny è viziato, debole di carattere, irresponsabile e pigro, ed è evidente che non abbia nulla a che vedere con l'integerrimo Watson, checché ne abbiano fatto i film della serie Rathbone-Bruce. Entrambi vivono al di sopra delle proprie possibilità e, nonostante i loro colpi vadano spesso a buon fine, dopo poche settimane ecco che tornano a indebitarsi. Partecipano alla vita di società londinese, sono iscritti a club esclusivi, giocano d'azzardo. La storia inizia infatti quando Bunny decide di recarsi da Raffles, suo vecchio compagno di scuola e amico, nonostante si siano ultimamente persi di vista, per esporgli la sua disastrata situazione economica alla ricerca di aiuto. Solo che Raffles è ancora più spiantato di Bunny. Ed è così che Raffles decide di tirarsi dietro l'amico per svaligiare una gioielleria, tacendogli inizialmente la vera natura del proprio piano.
Dicevo poc'anzi che mi viene spontaneo paragonare Raffles a Sherlock Holmes. Ecco, mentre le storie su Holmes puntano più sulla stranezza del caso e il lettore brancola nel buio fino all'improbabile soluzione finale, qui partecipiamo con Raffles ad ogni tappa dei suoi piani, che non sono neanche particolarmente machiavellici. Sono raffinati, ma semplici e plausibili. Un'altra cosa che mi porta a preferire Raffles a Sherlock (e a me Sherlock piace un sacco) è che i personaggi hanno davvero importanza. Non sono pedine all'interno della narrazione, anche se sono pochi a poter vantare una vera e propria caratterizzazione.
E potrei parlarne ancora, ma svelerei troppo, visto che si tratta di una raccolta di racconti e non di un romanzo. Lo consiglio visceralmente, soprattutto a chi ama Sherlock Holmes. Spero vivamente che prima o poi a qualcuno venga in mente di tirarne fuori una serie tv.

sabato 30 gennaio 2016

Codex Gilgamesh di Uberto Ceretoli

Codex Gilgamesh di Uberto Ceretoli, edito ad Dunwich Edizioni nel 2013, libro che mi viene spontaneo etichettare come un'estrema figata. E volendo potrei anche chiuderla qui.
Immagino abbiate presente quanto e più di me cosa si intenda per “steampunk”. In un'ambientazione storica, solitamente vittoriana, si immagina uno sviluppo tecnologico assurdamente evoluto e a mio dire coreografico, e ci si destreggia nell'immaginare in che modo scienza e storia interagiscono in dato contesto. Arti meccanici e cappelli a cilindro, diciamo.
Ecco, questo è un libro steampunk, genere di cui sono colpevolmente ignorante. Ma passiamo alla trama.
Siamo nel 1890 e c'è Victor von Frankenstein che, col suo fidato assistente Jack, uno schizofrenico che si trasforma in serial killer quando indossa una maschera da pipistrello, depreda antichi cadaveri per riportarne in vita i proprietari. E riporta in vita Da Vinci, così come ha riportato in vita Cleopatra, per farne i suoi collaboratori per un piano più ampio. E già qui potrei aver detto abbastanza.
Ma no, c'è Eudora, espertissima cacciatrice di Sua Maestà, che ha un conto in sospeso con Frankenstein e che è incaricata di catturarlo.
E poi c'è Kentigern, rampollo di un ramo cadetto della famiglia Gordon, nobiltà scozzese, che vorrebbe studiare archeologia e dimostrare che i micenei erano vichinghi, e invece l'ostinato padre obbliga a studiare ingegneria per poter ridare lustro al nome della famiglia, poiché l'archeologia è una scienza nuova e ancora poco rispettata, mentre l'ingegneria è una materia “vera”.
E c'è una spedizione archeologica capitanata da Sir Loftus, e in qualche modo, per ovvi motivi che non sto a spiegare, la storia si ripiegherà lì, con tutti i suoi personaggi. E tralasciando le trovate scientifico-meccaniche, che ce ne sono certe di veramente ganze, e tralasciando l'ambientazione vittoriano-steampunk che rende davvero bene, i personaggi sono la parte migliore del libro. Un po' perché hanno tutti un loro senso, sono ben caratterizzati, sono coerenti con se stessi. Da Frankenstein a Eudora, da Jack a Kentigern. Perfino da Leonardo a Cleopatra. Ma non è “solo” questo, è che alcuni di loro sono personaggi con cui è fantastico intrattenersi letterariamente, perché sono estremamente interessanti e non vedi l'ora di vederli fare qualsiasi cosa, riuscirebbero a entusiasmarti anche quando vanno, chessò, a prendersi un gelato, o a comprarsi un cappello. Sono ganzi, e non semplicemente per fare simpatia o in modo strumentale alla trama. Sono ganzi e basta. Sto togliendo spazio alla storia, me ne rendo conto, ma giuro che è una storia davvero ben congegnata, che si prende sul serio. E ci sono degli interrogativi gestiti alla perfezione, con un paio di piste sbagliate che si prendono alla leggera, e poi PEM.

Non posso fare a meno di consigliarlo violentemente. Di brutto.

Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi

È un po' che fisso la copertina chiedendomi in che modo iniziare a parlare della storia che contiene. Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi, edito della Zona 42, la loro prima pubblicazione italiana.
Racconta una storia che non è facile descrivere, e non soltanto per la complessità che si svela verso la fine, ma per l'atmosfera. La cosa più bella di questo libro è l'atmosfera, e non credo che riuscirò a renderle giustizia. Incerta, nebbiosa, onirica. Un'atmosfera un po' Eternal sunshine of a spotless mind (mi rifiuto di usare il titolo italiano) e un po' Inception, perché ogni volta che si parla di sogni non sai mai davvero dove ti trovi, cosa stai leggendo.
Ma veniamo alla trama.
Tutto ha inizio nel 2016 col risveglio di Dorian, il protagonista che è rimasto addormentato per dodici anni, al centro di un particolarissimo programma spaziale volto alla raccolta di dati sull'universo. A capitoli alterni, ci viene raccontato di quando Dorian è stato scelto, delle sue speranze di partire fisicamente per lo spazio nel 2003, della sua ragazza Simona, della reazione dei suoi familiari quando ha ricevuto la lettera dall'organizzazione del progetto, e poi di quello che accade nel presente del libro, il 2016. Dorian che torna alla vita di tutti i giorni, che si guarda intorno in un'Italia che gli sembra sempre uguale, che si addormenta e non si trova.
Il libro è diviso in tre parti, così come il titolo. C'è la prima parte dedicata a Dorian, la seconda parte che indaga le tesi scientifiche che supportano il progetto e che, sarò sincera, sono di una plausibilità disarmante. Viene perfino da crederci, nel corso della lettura, salvo poi ricordare che stai leggendo un romanzo di fantascienza. Dicevo, la seconda parte esplica le tesi scientifiche, ma non in modo pedante e artificioso. Voglio dire, la funzione della seconda parte è quella, ma il metodo è reso interessante dall'interazione di un paio di personaggi.
Mi rendo conto che sto svelando troppo, quindi mi fermo. Non parlerò del legame che intercorre tra le varie parti del libro, di Dorian e del programma, o dei personaggi centrali in Trovami, della particolarissima sensazione che si prova in Sognami.
Lo consiglio? Cristo, sì. Estremamente. Di brutto, di cattiveria. Il modo in cui la teoria scientifica si cuce a una trama che se non è solida è soltanto per scelta, ma supporta elasticamente tutto ciò che avviene. Lo stile che dosa con una precisione chirurgica la descrizione. E ribadisco, l'atmosfera che ti lascia a ondeggiare sulla narrazione.

Mi è piaciuto un sacco. Punto. 

Le stanze buie di Francesca Diotallevi

Le stanze buie di Francesca Diotallevi, edito da Mursia nel 2013.
La storia inizia con il protagonista, Vittorio, che nel 1904, si reca a una vendita all'asta dei beni di una famiglia per la quale ha lavorato quando era ancora un giovane e promettente maggiordomo. Ora, anziano e un po' claudicante, si ritrova a comprare per una cifra esorbitante un carillon e a straziarsi di ricordi fin dal tragitto in macchina che lo riporterà nella casa in cui presa servizio.
Da qui in poi sarà soprattutto una retrospettiva, sempre in prima persona, delle vicende che l'hanno portato in quella casa, quella del conte Amedeo Flores, dalla moglie Lucilla e dall'adorabile figlioletta Nora. Vittorio è stato richiamato come maggiordomo in quella casa per tenere fede al testamento dello zio, che pur non avendolo mai incontrato prima, lo ha sempre mantenuto agli studi, aiutando la madre, sua sorella, mandandole dei soldi ogni mese.
La casa del conte Flores è silenziosa, lugubre, spenta. I servitori sono pochi e malamente amministrati. Vittorio è un perfezionista, un orgogliosissimo pignolo che cerca sin dall'inizio di mettere in riga tutti gli altri, un altezzoso maggiordomo fedele ai suoi saldi principi. Un tipo freddo, scostante, razionale. Però quella casa gli impedisce di essere razionale fino in fondo. Ci sono strani rumori di notte, il campanello di una stanza vuota che suona la notte, nonostante sia disabitata da anni e sempre chiusa a chiave. Apparizioni e scricchiolii, misteri, domande...
Uno degli aspetti più affascinanti di questo libro è l'atmosfera. Quel profumo grigio e nebbioso, quell'aria piacevole e inquietante da romanzo gotico inglese... è straordinario il modo in cui l'autrice è riuscita a riprodurla. E poi i personaggi, la loro fedeltà a se stessi e alla propria caratterizzazione. I piccoli gesti che si ripetono, che li descrivono senza ridondanza...
Un romanzo che non sembra figlio di questo tempo, che ha in sé il ritmo e la voce di un classico. Intenso, pregno, eppure così ben dosato.
Di quelli che si consigliano da soli.


Intervista ad Aislinn

Anche questa, come quella di Tarenzi, è un'intervista un po' vecchiotta. Angelize II era appena uscito, quando ho chiesto ad Aislinn di rispondere a “un paio” di domande. Considerata la mole spropositata, è incredibile che non mi abbia mandata a quel paese.
Aislinn è una ragazza adorabile, che prepara biscotti a forma di ali per le presentazioni dei suoi libri, sorride un sacco e manda emoticon abbracciose. Poi dentro ha l'Armageddon e angeli che si massacrano. Meraviglioso dualismo.




Una piccola presentazione?

Salve, sono Aislinn e ho un problema: scrivo... (in coro: *Salve, Aislinn*).
Ehm, a parte gli scherzi, sono una ragazza thirtysomething che per mestiere scrive, legge, traduce, corregge. Fieramente piemontese trapiantata in terra fintolombarda, nel tempo libero mi comporto in modo irresponsabile, ascolto musica, canto a squarciagola, parlo con gli dèi, cucino biscotti e passo il tempo con le persone che amo.

Ti andrebbe di presentarti anche come 'lettrice'? Libri preferiti, genere di riferimento...

Prediligo – che sorpresa, eh?! – l'urban fantasy, ma leggo più o meno di tutto, sia in italiano sia, sempre più spesso, in inglese, vista la quantità di bei libri che in Italia non vengono tradotti. Onnivora con pila eterna di volumi in attesa sul comodino e cronica mancanza di tempo – anche considerato che leggo molto anche per lavoro, come consulente editoriale, redattrice, traduttrice e un po' tutto quello che si può fare per agenzie e editori –, tra i miei libri sacri posso citare, in ordine sparso, Dracula di Stoker, Il Signore degli Anelli di Tolkien, World War Z di Max Brooks, L'ombra dello scorpion e It di Stephen King, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde, Buona Apocalisse a tutti! di Gaiman e Pratchett. E se devo citarne anche solo uno italiano, dicoGodbreaker di Luca Tarenzi.

Angelize parla di angeli, ma quello che ne viene fuori non coincide affatto con l'immaginario convenzionale. A quali figure angeliche ti sei ispirata?

Inizialmente ho cercato di «rimescolare» un po' l'immagine classica degli angeli, quella che oggi viene descritta ai bambini per insegnare loro a pregare l'angelo custode: mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se, anziché proteggere le persone, le avessero ingannate. D'altronde, nella Bibbia stessa gli angeli sono guerrieri, distruggono intere città... non sono esattamente figure pacifiche. Nel mio romanzo sono figli di un Dio che disprezza la carne e predilige lo spirito: non hanno sensazioni come il tatto o il gusto e sono incorporei. Alcuni si aggrappano a questa «purezza»; altri cercano di liberarsene per incarnarsi al posto di esseri umani e sperimentare la nostra vita. Per quanto riguarda le atmosfere, poi, le mie due storie a tema angeli preferite sono senz'altro il già citato Buona Apocalisse a tutti! e il fil Dogma di Kevin Smith. Insomma, l'urban fantasy mi piace tosto e con ironia.

Haniel – a quanto ho capito, personaggio uber-preferito di buona parte dei lettori – è uno spirito maschile nel corpo di una ragazza. Si è trattato di una scelta consapevole o di un personaggio che ti è sbucato in testa così? Ed è stato difficile raccontarlo?

Haniel si divide la palma di preferito con Hesediel, a essere sincera (cosa che un po' mi ha stupito. E dire che me lo aveva pure detto Luca Tarenzi, che, infatti, ha sempre preferito proprio Hese... non gli avevo creduto :-P), ma credo sia comunque in vantaggio come numero di «fan» (e di «fangirl» ^_^). Haniel è il primo personaggio che mi è venuto a trovare, addirittura nel racconto che ha fornito il nocciolo del romanzo, anche se lì era un «protoHaniel» meno giovane e meno complesso. Quando ho iniziato Angelize, si è presentato in scena a modo suo, sconvolgendo gli altri personaggi e anche me. Non tanto per la sua situazione: a lui non frega niente di quale corpo abbia temporaneamente, il suo comportamento non varia di una virgola, il che crea non pochi imbarazzi nelle altre persone. La parte complessa è stata usare il suo punto di vista: le prime volte è stato un vero giro sulle montagne russe, tanto che poi ho dovuto limare molto le sue pagine (e d'altronde tutto il romanzo è passato attraverso diverse riscritture e revisioni). Hani ha la tendenza a partire per la tangente inseguendo i suoi pensieri, a mescolare passato e presente, a «spegnersi» e isolarsi dal resto... ho dovuto tenerlo a bada per mostrare tutto questo senza che al lettore (e a me!) venisse mal di testa. E, oltre tutto, Haniel non ammette nemmeno con se stesso molto di quello che prova, quindi ho dovuto mostrare tutto senza mai dire nulla in maniera esplicita, in un emblematico «show, don't tell»... Ma, una volta prese le misure del personaggio, tutto è diventato naturale per me. Fin troppo.
In maniera un po' inquietante, in effetti.
Quello che amo di lui è che non è il classico «duro dal cuore tenero»: è un matto dal cuore fragile. Che nel dubbio si corazza con spranghe e tirapugni.

A quale dei tuoi personaggi ti senti più vicina?

Tra quelli di Angelize, direi Haniel. Per certe insicurezze, per certi dark sides. Haniel non riesce a credere che anche lui possa trovare un po' di felicità. Nei miei momenti peggiori, lo penso, e ancora di più l'ho pensato in passato, anch'io. Per fortuna, gli dèi e le persone care mi sono accanto per scacciare quei momenti.

Gestisci un blog, una pagina fb e rispondi spesso su Ask. Hai instaurato un dialogo piuttosto fitto coi tuoi lettori. La figura dello scrittore è cambiata nel tempo, e forse lo è anche il suo rapporto coi lettori.

Ormai chiunque è potenzialmente raggiungibile da chiunque in pochi secondi, grazie a internet. E qualsiasi lettore che voglia fare i complimenti o coprire di insulti l'autore di un libro appena letto non deve faticare molto... Per quanto mi riguarda, mi fa piacere quando un lettore mi contatta attraverso il blog o qualche social: sono mezzi che mi permettono di ricevere un feedback a quello che scrivo e anche di conoscere un sacco di persone interessanti, che arricchiscono la mia vita: quasi tutte le mie migliori amiche le ho conosciute prima proprio tramite Anobii o Facebook. Naturalmente, non tutte le persone che si incontrano on line sono gradevoli, ma, fortunatamente, essere entrata a contatto con il web 2.0 già da adulta, per una pura questione anagrafica, fa sì che non abbia mai avuto particolari problemi nel tenermi lontano dagli utenti molesti.
Per quanto riguarda la figura dello scrittore oggi, mi sembra che l'immagine dell'autore rinchiuso in un eremo, tra nuvole poetiche e lontano dai comuni mortali, sia alquanto anacronistica ormai, e la confidenza che forse certi scrittori non volevano dare ai lettori, i lettori stessi se la sono presa da soli... d'altronde gli scrittori sono esseri umani, e qualsiasi tentativo di negarlo e di porsi «al di sopra» rischia di sconfinare nella presunzione o nell'ingenuità, a essere gentili. Come si può sperare di raccontare qualcosa sulle persone, se ci si pone al di sopra di esse? Per tornare al punto: se qualcuno mi contatta perché interessato a quello che ho scritto, comunque, mi sembra solo giusto e doveroso rispondere. Basta usare un minimo di buon senso, per far funzionare le cose, come in qualsiasi interazione umana.

C'è una certa esterofilia, soprattutto per i paesi anglofoni, nella letteratura italiana. Come mai hai deciso di ambientare Angelize in Italia? Ed è stato così fin da subito?

Sì, Angelize è nato a Milano ed è sempre rimasto legato a quella città. Hai ragione nel dire che prevale l'esterofilia nelle ambientazioni, perché un John o una Mary che si muovono nel Maine o a New York o a Londra sembrano molto più «fighi» di un qualsiasi Marco o Alessandra in Italia... Io, però, non concordo. Quando scrivo, voglio che nasca una storia che solo io avrei potuto raccontare, quindi voglio parlare di quello che mi colpisce, di quello che vivo, di come vedo ciò che mi circonda – ed ecco Milano, ecco i personaggi italiani immersi in un contesto italiano. Un contesto che, a mio parere, non ha nulla di inferiore o di meno interessante rispetto alle famose città straniere che si leggono in altri libri, anzi. Non escludo di utilizzare in futuro anche ambientazioni estere, naturalmente: non rifiuto nulla a priori. Ma quando lo farò, sarà perché quella certa storia non poteva che essere ambientata in quel certo luogo, così come Angelize sarebbe stato molto diverso se non fosse stato ambientato a Milano.

Ti va di parlare del 'processo creativo' dietro le tue storie? Come iniziano, come si evolvono, quando capisci che è tempo di iniziare a scrivere?

Tutto comincia da un'idea ancora abbozzata, il classico «che cosa succederebbe se?...», lo spunto di partenza, insomma, qualcosa che mi colpisce e comincia a frullarmi per la testa e a cercare altre idee, altre suggestioni, altri spunti con cui combinarsi per creare la trama, come se stessi costruendo qualcosa con il Lego, senza ancora sapere cosa – un processo che può richiedere pochi giorni così come anni. Quando comincio a scrivere, devo avere in testa almeno l'idea di base, con l'inizio della storia, il fatto scatenante, le prime scene; almeno un personaggio che, a furia di rimuginare, mi ha colpito, si è presentato e ha cominciato a farsi conoscere abbastanza bene da permettermi di entrare nel suo punto di vista; e, infine, la conclusione presunta – che magari cambierà, prima che io ci arrivi davvero, ma almeno mi fornirà una direzione verso cui tendere. Per il resto, preparo scalette frammentarie man mano che proseguo, con alcuni punti chiave che devo toccare, ma sono scalette soggette a modifiche, aggiustamenti e cambi in corsa, principalmente perché, di solito, i personaggi cominciano a fare di testa loro e si fanno venire idee che io non avevo considerato, imprimendo alla storia una direzione imprevista. Con questo non voglio fare discorsi pseudoromantici da «invasata dalle Muse»: in ogni forma artistica c'è qualcosa di divino, secondo me, ma non è quello di cui volevo parlare ora. Intendo solo dire che più i personaggi sono vivi nella mia mente, più mi immedesimo in loro, più è facile che scrivendo siano le loro stesse parole, i loro pensieri e la loro personalità a suggerirmi svolte ed eventi che non avevo previsto.

Sarei tanto, tanto lieta se potessi anticipare qualcosa di quanto stai scrivendo adesso.

Sto lavorando a una «trilogia atipica» urban fantasy, a due romanzi fantasy in ambientazione storica e... be', a un altro progetto che è ancora troppo poco delineato per parlarne meglio. I due fantasy storici sono uno stand-alone ambientato nel XVI secolo in varie località europee, che ha a che fare con la mia passione per il folklore, e un romanzo, che potrebbe avere una continuazione, ma che per ora è uno stand-alone, ambientato invece nel Mediterraneo diversi secoli prima di Cristo. La trilogia invece è «atipica» perché si tratta di storie che hanno la stessa ambientazione, una città piemontese, ma protagonisti ed elementi fantastici diversi: i personaggi principali del primo sono comparse del secondo e viceversa, mentre il terzo volume unisce tutti quanti. I primi due volumi sono autoconclusivi, comunque, pertanto non sarà necessario leggerli entrambi e in ordine, e vorrei che anche il terzo stesse in piedi da solo, nonostante il fatto che, com'è ovvio, conoscere già i personaggi aiuterà a cogliere meglio i vari riferimenti. Che altro posso dire? Ah, sì, grazie al mio amico Mauro, uno dei miei betamartiri, ovvero i lettori cui passo le mie prime stesure per un parere, la trilogia ha il nome non ufficiale di «metallari contro mostri» XD

I vampiri sono stati al centro di un tornado editoriale fino a pochi anni fa. Come credi che ne sia uscita la figura del vampiro, e perché ti va di scriverne?

Ah, i vampiri! Quindi sveliamo che ho una storia su di loro per le mani, eh? ^^
Be', dal tornado di cui parli sono usciti come è nella loro natura: da immortali. Possono venire ridotti ad adolescenti innamorati, privati della loro pericolosità, dei loro aspetti bestiali... ma prima o poi riemergono sempre, e ciò che resta alla base di tutto è la loro essenza: uomini ma non più umani, mostruosi ma invisibili e mescolati alla gente, simili a noi, ma alieni... Insomma, non importa quanti Twilight escono, il fascino del vampiro resta, così come i motivi per scriverne e rielaborarne la figura.
Per quanto mi riguarda, amo i vampiri dai tempi della mia prima lettura di Dracula (1995, avevo tredici anni), in seguito alla quale ho iniziato a leggere tutto quello che trovavo sul folklore e i miti legati a questa figura. Ho cominciato a scrivere una storia su di loro già dieci anni fa, perché... be', non li trovavo da nessuna parte come li volevo io. E no, non sono vampiri che brillano. So che presentare un romanzo di vampiri oggi è un rischio – chi dirà che non se ne può più, chi dirà che è una moda... – ma sono discorsi che non mi interessano. È la storia in sé che conta, non le chiacchiere di questo tipo. E dentro quella storia c'è tutta la mia passione, tanti dei miei incubi, alcuni dei personaggi che amo di più tra quelli che ho creato. Perciò, a suo tempo leggerete e vedrete...

Quand'è che ti sei detta 'Sì, ok, credo che diventerò una scrittrice'?

Ero adolescente, non ricordo di preciso quando, ma probabilmente avevo circa quindici o sedici anni. Anche se già scrivevo da qualche anno, è più o meno intorno al 1998 che ho iniziato a lavorare davvero su una lunga storia che poi avrei portato a termine, a scrivere insomma con continuità. Non c'è mai stato nient'altro che io sia stata così sicura di fare come scrivere, nient'altro mi ha accompagnato così a lungo nella mia vita.

Da insider, che idea ti sei fatta del fantastico in Italia? E del rapporto tra editori e lettori?

Ammetto di non essere particolarmente ottimista in merito: in un Paese in cui i lettori sono una minoranza, i lettori di fantastico sono una minoranza nella minoranza... non parliamo poi di quelli che vanno oltre l'occasionale fantasy o paranormal romance di moda. Gli editori inseguono il colpo grosso, il caso, facendo i conti con i numeri ben poco incoraggianti e tartassati dalla crisi che ha travagliato un po' tutti, e spesso preferiscono non rischiare. Per quanto riguarda gli scrittori di fantastico di casa nostra, ci sono alcuni autori validi, che devono faticare tantissimo per trovare un loro spazio – e parlo per esperienza personale: prima che Fabbri avesse il coraggio di credere nei miei urban fantasy ho ricevuto la mia quantità di rifiuti e vissuto le delusioni di qualsiasi altro «aspirante». Tutto questo, però, non vuol dire che l'unica possibilità sia rassegnarsi, anzi. Siamo scrittori, siamo lettori, quindi dobbiamo tenerci stretta la nostra follia di sognatori e continuare a fare quello che amiamo – scrivere le storie che solo noi possiamo scrivere, meglio che possiamo, cercare buoni libri e diffonderli tramite il passaparola. E continuare a insistere, con le case editrici, con i nuovi progetti coraggiosi come Acheron Books, che pubblica solo storie di qualità rivolte al mercato internazionale. Insomma, se il gioco si fa duro, è il momento di impegnarsi il doppio per giocare.

Il mondo dei libri è bello perché è strano. Quali sono le critiche/osservazioni più assurde che ti abbiano rivolto finora?

Direi le critiche a scene che non erano state apprezzate... e lo credo bene, perché il lettore in questione citava scene che nel libro non ci sono affatto. Giuro.

Qualche consiglio per chi vuole scrivere?

Leggere tanto. Di tutto. E se volete scrivere fantastico, imparare l'inglese e leggere quello che esce all'estero e non arriva da noi. Oltre a questo... scrivere. Scrivere con costanza, anno dopo anno e storia dopo storia. L'esperienza della pratica continua, dello sfidare i propri mezzi e del tentare strade nuove, non la si può conquistare con scorciatoie. Va benissimo leggere i manuali – l'ho fatto e continuo a farlo anch'io, perché be'... parlano di qualcosa che amo, no? E qualche spunto interessante, qualche suggerimento utile si trova in quasi tutti. Ma, allo stesso tempo, non fatene una malattia: se non riuscite a scrivere un capitolo perché a metà vi scoraggiate e lo mollate da parte pensando di non riuscire a seguire punto per punto tutti i consigli di tutti i manuali possibili e immaginabili... non imparerete niente. Quando iniziate una storia, concentratevi sul concludere la vostra prima stesura: poi ci sarà tempo per rivedere, sistemare, riscrivere e correggere. E siate flessibili. Se siete bravissimi tecnicamente ma non avete niente da dire, se le vostre pagine restano fredde e senza passione, nessuno show don't tell vi salverà, così come se avete un'idea notevole, ma non sapete esprimerla (vi perdete in infinite spiegazioni senza portare avanti la trama, per esempio, e magari sbagliate pure i congiuntivi), l'occasione di raccontare qualcosa di bello sarà sprecata. Infiammatevi per la vostra storia, innamoratevi dei vostri personaggi: il lettore quell'amore lo sente.

Infiniti ringraziamenti per esserti prestata alle mie infinite domande. Spero che ci incontreremo presto, sia in cartaceo che di persona.

Lo spero anch'io! E grazie a te per la chiacchierata ^___^


Intervista a Luca Tarenzi

Questa è un'intervista che risale a un paio d'anni fa, quando la casa editrice Acheron Books ancora non esisteva, e le ultime pubblicazioni di Tarenzi erano ancora in fase fetale. La ripubblico qui, su questo blog appena nato, per tre motivi:
1. Trovo tuttora che sia una bella intervista.
2. Luca Tarenzi è ancora uno dei miei scrittori preferiti, specie nell'ambito urban-fantasy, e adoro la naturalezza con cui riesce a fondere il nostro universo con miti e leggende, per creare ambientazioni incredibilmente plausibili.
3. In questo blog appena nato c'è da riempire un sacco di spazio. Che ci vogliamo fare?



Una piccola presentazione?

Cioè devo presentare me stesso?...
Tappo. Teinomane. Ciclotimico. Stonato. 38 anni all’anagrafe, la metà ai test sull’età mentale. Ho il cellulare sempre in mano. Faccio complimenti imbarazzanti. Rido a voce troppo alta. Guardo il sedere alle ragazze. Mi rado una volta a settimana. E non mi pettino mai. Proprio mai.

Quando hai iniziato a leggere?

Da bambino, principalmente per merito di mia madre. Ma a conti fatti non poi così presto: credo di aver letto il mio primo libro intero verso gli 11 anni.

Quando hai scoperto il fantastico?

Nello stesso momento: il libro di cui sopra era La storia infinita. Subito dopo è venuto La spada di Shannara di Terry Brooks. Tolkien ha dovuto aspettare la fine delle medie :-P

Scrittori di riferimento?

Quando ero agli inizi Michael Moorcock, Stephen Donaldson, Neil Gaiman, Ursula LeGuin, Gene Wolfe e William Gibson. Oggi anche 
Jim Butcher, Rick Riordan, Jim C. Hines e quello straordinario genio incompreso che è L. Jagi Lamplighter.

Cosa pensi della situazione del fantastico in Italia? Vedi spiragli?

Come tra le sbarre di una cella. Sbarre molto strette.
In questo momento nel nostro paese la situazione è difficilissima per l’editoria in generale e per il fantasy in particolare. Se mi mettessi a dare i numeri delle vendite, dareste i numeri anche voi. Oppure scuotereste la testa col sorrisetto cinico di chi-lo-aveva-sempre-saputo.
Per contro, nella mia esperienza consapevolezze di questo genere non hanno mai scoraggiato nessuno dal continuare indefessamente a scrivere, né gli autori pubblicati né gli aspiranti in cerca di pubblicazione. C’è chi la chiama follia (o stupidità), e c’è chi ricorda che quasi chiunque abbia avuto successo nella storia umana era un povero pazzo prima di avere successo.
Quelli che non lo hanno avuto sono rimasti poveri pazzi.

Quando hai capito che volevi scrivere davvero?

Mai.
Se la domanda fosse “Quando hai iniziato a scrivere?” la risposta sarebbe “Tardi: a 27 anni suonati”. E nemmeno allora sapevo bene se volevo farlo o no (e non lo dico tanto per dire, è così).
Oggi per la verità ho smesso di farmi la domanda. Scrivo perché è una (bella) parte del mio lavoro, e una delle poche cose che… ops stavo per dire “che so fare”. Ma una cosa del genere non la posso e non la devo giudicare io.

Che ruolo hanno avuto i tuoi studi universitari nella scrittura?

L’università e la laurea in Storia delle Religioni, più che una causa, sono state una specie di logica conseguenza di una fissa per gli dèi, gli angeli, le magie, i mostri che mi porto dietro da... forse dal primo libro di mitologia che mi hanno messo tra le mani da bambino. Quando è stato di preciso non lo so, ma prima de La storia infinita che citavo sopra.
Quindi un sacco di tempo fa, ahimè... (si scrocchia un po’ le giunture indurite dall’artrosi).
È altrettanto vero, comunque, che l’università mi ha messo in condizioni di avvicinare tutte queste materie con un occhio più scientifico e più maturo... ovvero capire cosa è fico mettere nei romanzi e cosa mandare a quel paese anche se è scientificamente corretto!

È cambiato il tuo rapporto coi libri degli altri, quando anche i tuoi hanno cominciato ad apparire sugli scaffali delle librerie?

Sinceramente?
Ma proprio proprio sinceramente?
Evviva, adesso ho più soldi da spendere per comprare libri!”
Scherzi a parte no, non è cambiato granché. Continuo a pensare che gli autori che amo siano mooolto più bravi di me, e a cercare le cose che mi incuriosiscono di più. Pubblicare è un’innegabile soddisfazione (più per l’ego che per il portafogli, se sei un autore fantasy italiano), ma a quel punto i problemi della tua vita di autore non sono risolti: cominciano.

Come traduttore, come sono state le tue esperienze?

Dall’orrido al sublime.
Nel 99% dei casi un traduttore non sceglie cosa tradurre: prende un lavoro che gli viene proposto o assegnato, come qualunque professionista. Dunque mi sono trovato tra le mani libri che avevo già letto di mia iniziativa, libri che non conoscevo ma che sono stato felice di scoprire e libri che non avrei mai avvicinato in vita mia (immancabilmente a ragione).
Ho tradotto cose molto divertenti come La valle degli eroi di Jonathan Stroud (Salani) o realmente affascinanti come Più nero della notte di Ian Tregillis (Asengard), e cose che non citerò perché non sono orgoglioso che portino il mio nome nella prima pagina...
In generale tradurre è un’ottima esperienza per chi vuole scrivere: ti costringe a guardare la tua lingua attraverso le lenti di un’altra, e a capire come far collimare – senza violarla – l’espressività di un altro scrittore con la tua.

Che significa per te scrivere?

Domanda difficile.
E non perché la risposta sia nascosta nei meandri segreti della mia psiche, ma molto semplicemente perché, come dicevo sopra, tendo a non pormela da solo.
Scrivere è un lavoro, ogni tanto una fissa, a volte un piacere, spesso uno sfogo e nello stesso tempo una fonte di incazzatura, quasi sempre una disciplina, quasi mai una soddisfazione.
Ma a conti fatti non è una cosa che abbandonerei. Non in questo momento della mia vita.

Che cosa conta di più per te in un libro? Cos'è che giudichi più importante?

Che ti ipnotizzi. Il resto non conta.
O meglio, il resto – lo stile, la forma, il linguaggio, le odiose saccenti regolette e via dicendo, ovvero tutto quel che si può riassumere in “scrivere bene” – è finalizzato a questo e a questo soltanto: che una storia scritta riesca a ipnotizzare il lettore. Nel caso qualcuno ci riesca anche senza l’apparato di cui sopra, va benissimo lo stesso.
A meno che non si vogliano scambiare i fini coi mezzi, nel qual caso si parla di “feticismo scrittorio”, che tutta un’altra malattia.

Ci sono le critiche costruttive e quelle campate in aria. Ti è mai capitato di riceverne di assurde?

Hai voglia!
Le migliori sono sempre quelle di chi ti dà seriamente l’impressione di aver letto un libro diverso da quello che hai scritto (e che chiunque altro ha letto, beninteso). E non parlo tanto di quelli che criticano episodi o dialoghi o scene che nel tuo libro NON CI SONO – succede davvero, non scherzo – quanto piuttosto di quelli che mentre leggono il tuo libro ti interpretano l’interno del cranio. “È ovvio che con questa scena stavi cercando di aggiungere il tal effetto, ma non ci sei riuscito per questo o quell’altro motivo”. “È evidente che con questo personaggio volevi esprimere la tal cosa ma, povero te, non ne hai la capacità”.
Se fai notare che queste interpretazioni sono “ovvie” ed “evidenti” solo al tuo interlocutore, visto che non solo a te non sono mai passate per l’anticamera del cervello ma anche che nessun altro dei tuoi lettori, che tu sappia, le ha mai pensate, ti senti rispondere dal critico di turno che “lui sa veramente quel che tu pensi, gli altri sono lettori comuni, non capiscono nulla”. Dico sul serio.
A questo si può aggiungere che, nella mia esperienza personale, le uniche critiche costruttive arrivano da persone di cui ti fidi e in privato. Diffidare per principio di qualunque critica pubblica è un’ottima regola generale.
Non leggerle proprio è una regola ancora migliore.

In 'Quando il diavolo ti accarezza' compare un mercato che mi ha ricordato molto quello in Nessun dove di Gaiman. È una citazione voluta?

È una mia interpretazione di tante scene simili che ho incontrato in libri, film e fumetti. Sicuramente c’è dentro Gaiman, ma anche Grant Morrison, Tim Powers, Ekaterina Sedia, Hellboy e sequenze che mi vengono dai giochi di ruolo. A dirla tutta, però, il principale riferimento consapevole era a Something from the Nightside di Simon Green.

Si possono avere anticipazioni sul prossimo libro?

Discariche.
Veleno.
Spade di lamiera.
Pericolosissimi gabbiani.
Un casus belli che qualcuno ha buttato via.
E alcuni personaggi metricamente svantaggiati.*

Ci sono dei piccoli rituali che segui, quando devi metterti a scrivere?

Non quando inizio ma quando ho finito: un po’ di silenzio e un pensiero al piccolo Spirito domestico che supporta il mio lavoro.

Com'è andata con gli editori?

Come a tanti.
Inizi pubblicando con uno piccolo (al tempo in cui ho iniziato io era meno arduo di adesso, non c’era una tale crisi), e se vai bene alle vendite ti può notare uno più grande. E intanto entri nell’ambiente e ti crei qualche contatto personale, che può sempre tornare utile (e in genere lo fa).
Poi arrivi alle pubblicazioni un po’ più grosse e scopri che i problemi sono appena cominciati.

Come stanno i tuoi animali?

Grassi, felici e mai sazi nonostante la grassezza!

Che stai leggendo adesso?

Blackbringer, un romanzo di Laini Taylor inedito in Italia – ma se vi capitano sotto mano i suoi libri tradotti in italiano leggeteli, valgono la pena! – che parla di creature fatate.
Ma l’ho appena cominciato perciò non chiedetemi ancora com’è :-P

Un consiglio a chi vuole scrivere?

Crederci. Più di quanto ci abbia mai creduto in tutta la sua vita. Crederci al di là del razionale e del sensato, con la fede pura dei mistici. Perché non esiste un momento peggiore di questo in Italia per chi scrive professionalmente o chi vorrebbe farlo. Senza esagerazioni, è tempo di eroi.
E ne servono davvero.

*Si riferisce a Poison Fairies, edito da Acheron Books. Da leggere.