mercoledì 14 settembre 2016

Concorso Transilvania - I Vincitori



Dopo una lunga attesa, l'Augusta Giuria ha selezionato i tre vincitori della Prima Edizione del Concorso Transilvania, che riceveranno un buono da quindici euro da spendersi nella libreria Miskatonic University di Reggio Emilia e, insieme agli altri finalisti, compariranno nell'antologia che verrà pubblicata sul blog del Transilvania Project.
Il Concorso Transilvania è alla sua prima edizione; è nato da poco, è meno che infante, eppure guardando ai racconti di coloro che hanno deciso di partecipare non posso fare a meno di sentire un moto di orgoglio. Non tanto per la quantità dei racconti ricevuti – che comunque per una prima edizione è stata sorprendentemente alta – quanto per la qualità delle opere, per l'evidente impegno che è stato profuso nella loro stesura.
Prima di proclamare i tre vincitori del Concorso Transilvania voglio quindi prendermi due righe per ringraziare tutti i partecipanti, a prescindere dal risultato che hanno ottenuto. Soprattutto vorrei fare i miei più sentiti complimenti ai finalisti, che ci hanno sorpresi con la qualità e l'originalità delle loro opere. Vi renderete conto, quando l'antologia verrà pubblicata, di quanto sia stata agguerrita la selezione.
Ma bando alle ciance, i tre racconti vincitori sono:

Lamia di Federica Leonardi

Storia di un accendino di Luca Terlizzi

Transilvania Express di Zeno Saracino

Congratulazioni ai tre sul podio; trattasi di tre racconti veramente originali, appassionanti e incredibilmente riusciti. Leggerli e valutarli è stato un incarico svolto nel più totale divertimento. Sarete d'accordo con me quando avrete modo di testare personalmente.


Infine ringrazio, com'è giusto che sia, i membri della giuria che si sono prestati ad affiancarmi nella valutazione delle opere. I lit-blogger Camilla Pelizzoli di Bibliomania, Marco Stabile di Il pozzo e lo straniero, Irene Daino di LibrAngolo Acuto. I due eccelsi librai della Miskatonic University, Andrea e Giulia. Due eccellenze dell'urban-fantasy italiano, Aislinn e Luca Tarenzi. Grazie per il tempo e la dedizione spesi nel progetto, nonostante il lavoro e gli impegni personali.

Grazie a chi ha seguito le vicende di questo Concorso.

È stata una bella avventura – e non è ancora finita.

venerdì 9 settembre 2016

Due parole su Stranger Things

Netflix è approdato in Italia da neanche un anno, e già le sue serie originali sono diventate una garanzia. Da Orange is the new black al nuovissimo The Get Down, passando per le serie animate con alto tasso di nichilismo quali Archer e Bojack Horseman.
Negli ultimi tempi si è parlato molto di Stranger Things. Una nuova serie che però è anche vecchia, e infatti molti si sono chiesti se si trattasse di un recupero, di un reboot o di una serie nuova.
Ideata da Matt e Ross Duffer, Stranger Things è una serie di otto episodi – rinnovata per una seconda stagione – ambientata nell'Indiana degli anni '80, tra la fantascienza e l'horror, che narra le vicende di un gruppo di persone impegnate nella ricerca di un bambino scomparso. I suoi amici e compagni di D&D, la madre, il fratello, un poliziotto solerte, la sorella dell'amico che si unisce alla quest per altri motivi.
Di Stranger Things si è scritto e detto troppo perché si possa aggiungere qualcosa. Ci sono un sacco di ragioni per lodarla e altrettante per guardarla. Senza stare troppo a girarci intorno, ne elencherò brevemente alcune.
  1. Dipinge perfettamente gli anni '80, senza ostentarne i simboli ma integrandoli nell'ambientazione.
  2. I personaggi appaiono inizialmente come stereotipi tipici dei prodotti mediali degli anni '80 e acquistano spessore con l'avanzare delle puntate. Il bulletto non è un bulletto, la secchiona non è una secchiona, gli sfigatelli non sono sfigatelli, i pazzi non sono pazzi.
  3. Non tutti i personaggi principali devono piacerti, tutt'altro. Nancy, la sorella maggiore del protagonista, sembra costruita appositamente per toglierti dei gran ceffoni dalle mani.
  4. La colonna sonora che comprende The Clash e The Smiths.
  5. Il racconto non si esaurisce nella missione da compiere e nello svelamento del mistero. Le vite dei personaggi sono importanti, le questioni pratiche superabili ma contemplate come problemi.
  6. Il professore di scienze che funge da Google – e un po' deus ex machina, ma ce lo facciamo andare bene.
  7. Joyce Byers, interpretata da Winona Ryder.
  8. I rapporti tra i personaggi che non sono mai in secondo piano.
  9. Il finale, secondo me perfetto sotto ogni punto di vista. Né troppo tragico, né troppo piacione, con quell'ultimo tocco che è sia plausibile conclusione che omaggio ai cliché degli horror anni '80. If you know what I mean.

Stranger Things è da guardare. Ma è probabile che questo post arrivi con inusitato ritardo.

martedì 5 luglio 2016

Concorso Transilvania - Selezionati i racconti finalisti

L'Augusta Giuria è lieta di annunciare, con elegante ritardo, i titoli dei racconti finalisti che andranno a comporre l'antologia che verrà pubblicata sul blog Transilvania Project*.
Si tratta (in ordine alfabetico) di:



Chi è il mostro? Michele Natali

Il pozzo asteroidale di Rasnov di Michele Parrinello

L'inferno di Dracula di Matteo Pezzani e Adriana Giombarresi

Lamia di Federica Leonardi

Oltre la foresta di Vincenzo Barone Lumaga

Revansa di Alessio Del Debbio

Storia di un accendino di Luca Terlizzi

Transilvania Express di Zeno Saracino

Zero Negativo di J. V.


A questa prima scrematura farà seguito un'ulteriore selezione per decidere quali saranno i tre vincitori del Concorso Transilvania, che potranno usufruire di un buono di quindici euro da spendersi alla libreria Miskatonic University di Reggio Emilia.

Complimenti vivissimi – per quanto il tema lo conceda – ai finalisti, che ci hanno stupiti con la qualità delle loro opere. Vi auguriamo buona fortuna per la selezione finale.


A tutti gli altri concorrenti rivolgiamo i nostri più sentiti ringraziamenti per l'impegno e per la partecipazione, e li invitiamo caldamente a partecipare alle prossime edizioni del Premio. È stata dura operare una scrematura tra tanti testi meritevoli, l'arrivo di tante opere di qualità è stata una graditissima sorpresa.

*etc. Ne parleremo in seguito.

giovedì 14 aprile 2016

What we do in the shadows


Il cinema non è, e non è mai stato, tra le mie passioni. Sottolineo con questa premessa la totale assenza di tecnicismi e valutazioni in merito ad aspetti quali montaggio o fotografia. Non amo il cinema, conseguentemente non lo conosco.
In compenso, adoro la figura del vampiro più o meno da sempre. Anzi, più specificamente da quando ho preso in mano per la prima volta Intervista col Vampiro di Anne Rice, più o meno in seconda media. Più si amano i vampiri, oserei dire, e più si è sofferto nel periodo post-Twilight che li ha ridotti a macchiette pseudo-romantiche e over-sessualizzate.
Rimane il fatto che il vampiro è una figura facile da prendere in giro; per il proprio fascino e il proprio ruolo tuttora inattaccabile ai vertici dell'immaginario collettivo gotico-orrorifico, il vampiro presta il fianco a innumerevoli sberleffi.
Nella narrativa contemporanea, che ama fondere ciò che è antico e temibile con ciò che è odierno e frivolo, il vampiro è il sunto di tutto ciò che si può ridicolizzare. Anacronistico, spesso raffinato, troppo crudele o in alternativa troppo sensibile, discendente dal paranormale ma immerso nel mondo reale.
Ora, What we do in the shadows del 2014 di Taika Waititi e Jemaine Clement, un mockumentary in co-produzione tra USA e Nuova Zelanda. Una pellicola di cui non avevo mai sentito parlare finché Aislinn non ne ha chiacchierato sul suo blog, qui.
Molto probabilmente la migliore commedia sui vampiri che io abbia visto finora.
In Nuova Zelanda vive una congrega di quattro vampiri, ognuno proveniente da un periodo storico diverso. Viago è stato un dandy Settecentesco, Vladislav un impalatore medievale, Deacon è un “ragazzino” di appena 180 anni. Al piano di sotto Petyr, una forma incartapecorita che ricorda Nosferatu ha ben 8000 anni.
La scelta di ammassare insieme ben quattro vampiri in luogo di uno soltanto offre la ghiotta possibilità di ridicolizzare tutti gli stereotipi più conosciuti riguardanti i vampiri e non uno soltanto. Il vampiro raffinato, il vampiro violento, il vampiro giovane e ribelle e il vampiro... beh, Petyr.
È esilarante il modo in cui interagiscono tra loro, interagiscono col mondo e interagiscono col fatto stesso di essere vampiri. Il loro prendersi sul serio, gonfiando il petto e svolazzando davanti alle telecamere, per poi litigare per i lavori di casa. Il rapporto coi licantropi poi è meraviglioso. I migliori licantropi di sempre.
What we do in the shadows va visto, punto. Che i vampiri si odino o si amino, è una meraviglia di rara comicità e di inaspettata intelligenza.
E forza licantropi.

martedì 5 aprile 2016

Scade (con riserva) il bando della prima edizione del Concorso Transilvania



Si conclude oggi, con riserva, la prima edizione del Concorso Transilvania.
Un sentitissimo ringraziamento a tutti coloro che hanno partecipato, cercheremo di essere celeri nella valutazione dei racconti.

La riserva è dovuta al fatto che quasi la metà dei racconti sono arrivati negli ultimi giorni disponibili, e si era dunque ipotizzato di prorogare la scadenza di un paio di settimane per permettere l'arrivo di ulteriori candidature.

Visti gli ultimi sviluppi si potrebbe anche chiudere l'invio, ma verranno comunque presi in considerazione i racconti di chi contava sulla proroga cui si era accennato sui canali del Transilvania Project.

A tutti i partecipanti, buona fortuna.

martedì 16 febbraio 2016

Labyrinth

Quando cerco di spiegare perché la morte di David Bowie mi abbia colpita come ha fatto, mi viene sempre da dire che “la mia fantasia ha la forma del Re di Goblin”, personaggio che Bowie ha interpretato in Labyrinth, film diretto da Jim Henson nel 1986. Non ho idea di quando l'abbia visto la prima volta, è uno dei film con cui sono cresciuta, insieme a Ritorno al futuro e a La storia infinita. Vai a sapere a quando risale la prima visione. Il fatto è che Labyrinth è rimasto, in tutti questi anni, il mio film preferito; distanzia tutto il resto, forse proprio perché quando l'ho visto ero così piccola che il mio cervello era ancora molle e malleabile, e ha potuto organizzarsi esattamente nella forma prevista dal film.
Ad ogni modo, non voglio chiacchierare di David Bowie o di quanto io abbia adorato Labyrinth. Piuttosto, vorrei parlare del perché lo trovo tuttora un capolavoro.
Tanto per cominciare, Labyrinth racconta due storie parallele. Una immediata, che è quella di Sarah, una ragazzina insopportabile che “per errore” fa sì che il fratellino venga rapito dai Goblin solo per dispensarla dai suoi doveri di sorella maggiore e baby-sitter. L'altra, è quella di una ragazza che non vuole crescere, e ha luogo nella sua testa.
La prima storia, quella immediata, è puro fantasy. La nostra eroina parte per un viaggio per la salvezza del fratellino, attraverso traversie innumerevoli in un mondo fantastico; le sono state concesse tredici ore per raggiungere il castello nel Labirinto, “oltre la città di Goblin”. Durante il viaggio incontra diversi amici, personaggi improbabili come Gogol, Bubo, Sir Didimus. Riuscirà nell'impresa? La risposta è abbastanza ovvia, ma do per scontato che qualcuno prima o poi capiterà da queste parti senza averlo ancora visto, quindi taccio. Trattasi comunque del “viaggio dell'eroe”, una struttura narrativa nota, già percorsa.
La seconda storia, invece, è sparsa nella prima. Mi sono resa conto della sua presenza solo pochi anni fa, quando l'ho rivisto dopo tanto tempo – ho sempre voglia di guardare Labyrinth, ma lascio trascorrere un minimo di tre/quattro anni tra una visione e l'altra per non rovinarmelo troppo, anche se ormai lo conosco a memoria – su uno schermo ben più grande di quello a casa dei miei genitori, dove l'avevo sempre visto. Mi è apparso evidente il riferimento del poster di Escher sulla parete di Sarah, chiaramente ripreso nella scena dello “scontro finale”; ho finalmente notato la statua del Re di Goblin sulla scrivania di Sarah, e aggiungerla a tutti quei collegamenti cui fino ad allora non avevo mai dato troppo peso. I pupazzi di Bubo, di Sir Didimus, il vestito della ballerina del carillon, la statuina di Gogol. Il gioco del labirinto. Aggiungasi a tutto questo un set di D&D, libri fantasy per ragazzi.
La seconda storia racconta di una ragazza che non vuole crescere, ancorata con le unghie alla propria infanzia. Che si comporta con la madre acquisita come se fosse una matrigna delle favole, perché non vuole lasciare il mondo delle favole. E già questo, di per sé, è abbastanza interessante. Jareth è un'espressione di Sarah, che vuole costringerla a rimanere la ragazzina che è, sollevandola da ogni responsabilità, al comodo prezzo dell'odiato fratellino. Adoro il fatto che lo spettatore possa scegliere a quale storia dare ascolto, se sceglierne una o se fonderle insieme. Io, personalmente, le fondo insieme. Il fatto che il Labirinto si trovi nella testa di Sarah, non ne impedisce la presenza altrove.
Quello che ho amato particolarmente di questo film è il finale. Tanto per cominciare il fatto che SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER Sarah non si arrenda a Jareth. Labyrinth non è una specie di romance; ogni tanto penso che se dovessero rifarlo oggi, tra Sarah e Jareth ci sarebbe uno smielato lieto fine, e dubito che potrei sopportarlo. Labyrinth è così potente proprio perché Sarah comprende che il re di Goblin “non ha nessun potere su di lei”.
Un altro aspetto del finale che trovo importante è il fatto che concluda entrambe le storie, soprattutto la seconda, quella sulla crescita personale di Sarah. ANCORA SPOILER. Sola nella sua stanza, tornata dal viaggio, Sarah mette via alcuni dei suoi giocattoli. Ha perfino portato Lancillotto, il suo orsacchiotto preferito, al fratellino che dorme beato. Sembra che voglia dare addio a tutto, che si chiuda alle spalle, per sempre, tutto il Labirinto, e che si accinga a percorrere una vita di serietà, priva di magia e immaginazione. Ma poi guarda nello specchio, e sappiamo come va.
La morale di Labyrinth, se davvero dobbiamo trovarne una, sta anche e soprattutto in questa scena, nella posizione che prende nei confronti della fantasia come parte integrante della vita delle persone, a prescindere dall'età. Un arto aggiuntivo che sarebbe doloroso quanto inutile staccare. Privarsene, per che cosa?
A volte penso a tutti i significati che potremmo dare alla formula “diventare adulti”. Quando avevo l'età di Sarah mi chiedevo come sarebbe stato crescere, se avrei iniziato ad apprezzare il vino e a vestirmi decentemente, se avrei cambiato le mie letture, se avrei smesso di cantare motivetti stupidi inventati sul momento. Si capisce solo arrivati a una certa età – e penso proprio di esserci arrivata – che crescere non ha nulla a che vedere con la rinuncia, ma con l'accettazione del mondo al di fuori dalla propria stanza, e delle responsabilità che comporta. Che si può essere adulti perfettamente funzionali e ballare sulle note di Magic Dance.
Tralasciamo le mille meraviglie aggiuntive di Labyrinth: le ambientazioni, la colonna sonora, i burattini, le maschere, i dialoghi, i personaggi come il verme e il coprisaggio. È un film che non si può non vedere, che diamine. Gora dell'eterno fetore a chi ne fa a meno.

sabato 6 febbraio 2016

L'estate segreta di Babe Hardy di Fabio Lastrucci

L'estate segreta di Babe Hardy di Fabio Lastrucci, pubblicato da Dunwich nel 2013. Non è un libro facile da descrivere. Tanto per cominciare, nonostante la trama principale sia piuttosto lineare e veda come protagonisti Stan Laurel e Oliver Hardy (Stanlio e Ollio, proprio loro) affetti da una forma fastidiosa e invalidante di vampirismo, sono presenti un buon tot di personaggi di contorno, che arricchiscono la storia e smuovono, direttamente o indirettamente, le cose per i nostri pallidi protagonisti. A volte non è poi chiaro cosa vogliano, né cosa li muova. È chiaro che il delinquentello da strapazzo Lefty Miracle non abbia poi un piano specifico, e che tutto ciò che vuole è raccogliere un po' di soldi. Eppure riesce in un paio di occasioni a intersecare le linee narrative degli attori principali, senza neanche rendersene conto. C'è Bela Lugosi, principale sospettato del contagio, col suo accento farlocco e i suoi servitori cinesi. C'è il tenente Nunnaly, che vorrebbe arrivare in fondo alla faccenda a quella maniera tipica dei film gangster americani che fuori dalle sale appare decisamente ridicola. C'è Douglas Fairbanks con la moglie Mary Pickford, due celebri attori del muto. E c'è un dottore tedesco che segue le tracce dell'infezione vampirica.
Questo libro è tante cose. È un inno al cinema americano degli anni '30, con cammei e citazioni. Lastrucci afferma di averne disseminati almeno una trentina, e io dubito di averli riconosciuti tutti. Anzi. Ed è anche una raffigurazione meno smagliante, meno innocente e più squallida del solito della Hollywood degli anni '30.
È anche e soprattutto una storia comica, e il comico agisce secondo diversi meccanismi. Primo fra tutti il fatto che i personaggi reagiscono in maniera credibile a un fatto incredibile. Non si struggono nei loro mantelli, filosofeggiando sull'umana sorte, né sentendosi esclusi e “altri” rispetto al mondo di cui avevano fatto parte fino al contagio. Ogni volta che qualcuno – di solito Hardy – vira verso il teatrale, c'è sempre qualcuno o qualcosa pronto a riportarlo coi piedi per terra. E il contrasto tra irreale e reale si sente. Un altro strumento della comicità sono i dialoghi, che ho gradito moltissimo. I personaggi scherzano, si rimbeccano, litigano, svicolano. E poi c'è l'assurdità delle situazioni, che viene spesso portata all'estremo. Il fatto che non disturbi e che non cozzi mai contro la sospensione dell'incredulità dipende almeno in parte, secondo la mia modesta opinione, dall'ambientazione hollywoodiana, in cui per cinematografica abitudine tutto ci risulta possibile, pure l'irrazionale.
Lo stile che accompagna le vicende è preciso, non invasivo, e allo stesso tempo leggero. Si lega perfettamente al tono che l'autore vuole dare alle vicende, quello di un prospettiva un po' slapstick che non si può prendere sul serio.
Personalmente non posso affermare di sapere alcunché su che tipo di persone fosser Stan Laurel e Oliver Hardy. Qui, come personaggi, funzionano eccome. Hardy è goffo e ingenuo, Stan è il pragmatico calcolatore. Entrambi bevono, si punzecchiano, vanno a donne. È strano pensare agli Stanlio e Ollio dei film che guardavo da piccola come a persone vere, ricche e volgari, al rapporto disastrato che hanno con le rispettive famiglie. È strano, ma funziona.

Va da sé che consiglio moltissimo questo libro. Forse non ai fedeli dei vampiri vecchio stampo, ma diamine se lo consiglio.

giovedì 4 febbraio 2016

I segreti di Heap House di Edward Carey

I segreti di Heap House, scritto e illustrato da Edward Carey, tradotto – assai bene – da Sergio Claudio Perroni, edito da Bompiani, primo volume della trilogia dedicata a Heap House. Sin da quando è uscito ho preso a rimirarlo e soppesarlo ogni volta che me lo trovavo davanti in libreria, senza mai decidermi a prenderlo. Il fatto è che quando mi trovo davanti a una copertina così convincente e a una trama così interessante... beh, non mi fido. Troppo bello per essere vero, c'è sicuramente la magagna. E nonostante abbia continuato per mesi a chiamarmi e a incuriosirmi, mi sono decisa a prenderlo soltanto quando (fortuna delle fortune) l'ho trovato a metà prezzo sul sito del Libraccio.
Ed è un libro fantastico. È esattamente quello che promette. Dark nel senso più tetro e turpe, senza svenevolezze, ma pieno di sofferenza e squallore, itterizia, aria fetida, atmosfere claustrofobiche che non lasciano filtrare la minima speranza. Sono d'accordissimo con chiunque l'abbia definito Burtoniano, e aggiungo che è da riferirsi alla produzione più gotica e scura del regista. L'atmosfera mi ha ricordato  moltissimo La sposa cadavere, coi suoi ambienti scuri, i colori che variano appena dal nero al blu, i personaggi intrappolati in una trama crudele.
Arduo arrivare al dunque senza svelare troppo, perché è bello scoprire il contesto mano a mano che viene raccontato, poco a poco. Non è nemmeno del tutto chiaro, a pensarci bene, in che razza di mondo si trovi Heap House, se sia vicino al nostro o a una sua versione vagamente steampunk. Immagino che si scoprirà nelle prossime puntate. Che non vedo l'ora di agguantare.
C'è la famiglia degli Iremonger, antica, prospera, ricca. Vive a Heap House, al centro di un'immensa discarica, pericolosissima in quanto i cumuli di rifiuti si muovono, crollano, rischiano di sommergere chiunque vi si trovi in mezzo. E in questa strana famiglia ci si sposa soltanto tra cugini, e si vive tutti insieme a Heap House, che ha continuato ad allargarsi annettendo pezzi di Londra trascinati via chissà come, e imbullonati alla casa. Gli Iremonger sono orgogliosi del proprio sangue, e disprezzano il resto del mondo, che comunque non li apprezza granché. Alla nascita, a ognuno viene attribuito un oggetto natale, dal quale non si separerà mai, e che racconterà molto sul carattere di chi lo possiede.
Clod Iremonger, il protagonista, si porta dietro un tappo da vasca. Clod è strano, anche per essere un Iremonger. Sente le voci degli oggetti, li sente ripetere un nome, uno per oggetto. Il suo tappo, ad esempio, continua a ripetere “James Henry Hayward”, mentre il rubinetto del cugino e unico amico Tummis ripete “Hilary Evelyn Ward-Jackson”. La narrazione è in prima persona, e si alterna tra Clod e Lucy Pennant, una ragazzina orfana che viene presa a servizio a Heap House. Così da un lato scopriamo come vivono gli Iremonger “puri”, e dall'altro Lucy ci racconta com'è lavorare a Heap House.
E poi iniziano a succedere cose strane, strane perfino per Heap House. Oggetti che scompaiono, che si muovono. E a ben vedere non assistiamo a vere e proprie indagini su quello che succede. Né Clod né Lucy sono personaggi d'azione. Lucy, al massimo, gironzola dove e quando non dovrebbe, piuttosto che limitarsi a pulire i caminetti. È un libro in cui le cose capitano, spinte dalle circostanze, da eventi esterni, da personaggi secondari. Clod è preoccupato per il fragile cugino Tummis, per le proprie nozze obbligate con la cugina Pinalippy, per il gabbiano scomparso. Ha pausa del cugino Moorcus, si pone giusti quesiti sulle voci degli oggetti, ma si lascia perlopiù trasportare. Lucy parla con le altre domestiche, si guarda attorno stupita dall'ambiente bizzarro in cui si ritrova, parla dei cumuli di rifiuti, gironzola per Heap House fino a incontrare Clod.
Penso che sia uno dei lati del romanzo che non mi sono accorta di aver apprezzato tanto finché non ho iniziato a pensarci, proprio adesso che ne sto scrivendo. Il fatto che la trama non si dispieghi forzata dai personaggi principali, ma sia piuttosto una storia che accade prima in sottofondo per emergere in superficie e farsi imponente. Lo trovo più realistico, ecco, e adatto a un'atmosfera immobile come quella di Heap House.
Ho adorato i personaggi, tutti, anche quelli che compaiono appena. Soprattutto quelli spiacevoli. Pinalippy, ad esempio, e i vari zii di Clod. Sono tutti particolarissimi, ed è davvero interessante il legame che hanno coi propri oggetti natale, così come è affascinante il rapporto tra gli Iremonger e la discarica.
Mi piacciono moltissimo le illustrazioni che inaugurano i capitoli e raffigurano vari membri della famiglia. Continuo a pensare che sarebbe bellissimo se Tim Burton prendesse ispirazione da questo libro, ne uscirebbe qualcosa di meraviglioso. E crudele.


lunedì 1 febbraio 2016

Intervista a Virginia De Winter




  1. Come mai hai scelto di pubblicare sotto pseudonimo? E come mai proprio 'Virginia de Winter?
Mi piace la mia vita e, arrivato il momento di pubblicare, ho temuto che qualcosa potesse turbarla – anche solo un'occhiata curiosa da parte delle persone che conoscevo da sempre. Del resto, nemmeno quando si è trattato di pubblicare fanfiction ho voluto usare altro che non fosse il nome di penna “Savannah”. Le domande, anche fatte da quelle poche persone al corrente, mi mettono in difficoltà e mi innervosisco. Preferisco continuare come se nulla fosse successo e scrivere come sempre ho fatto, tranquilla e senza che a nessuno importasse.
  1. Quali libri ti hanno formata come scrittrice?
Troppi per elencarli tutti. Principalmente però la maggiore influenza sul mio immaginario e sulla mia narrazione l'ha avuta Anne Rice con le sue Cronache dei Vampiri e con il ciclo delle Streghe di Mayfair, poi mi vengono in mente i libri di Marion Zimmer Bradley, quelli di J.K. Rowling; Beppe Fenoglio del quale adoro la prosa (secondo me ha un uso della lingua italiana di un pregio unico); ho anche cercato di imparare il ritmo di narrazione di Cassandra Clare (un'altra autrice che mi piace moltissimo); Stendhal, Libba Bray. Non c'è un ordine, né un senso preciso. Ogni autore è la summa di quello che ha amato, credo.
  1. Quand'è stata la prima volta che ti sei detta 'Magari scrivo'?
Troppo piccola per aver formulato il pensiero con lucidità. L'ho fatto e basta. Avevo un diario come molte bimbe, rosa a fiorellini e con il lucchetto. Non ci ho mai messo il resoconto di una giornata nè i miei pensieri, scrivevo storie e, dopo qualche tempo, dal diario si sono trasferiti su un quaderno e poi su fogli A4 e alla fine su un computer.
  1. Come sono nati i tuoi personaggi e che rapporto hai con loro?

Hai un'idea, a un certo punto li visualizzi e basta, come una persona che conosci superficialmente e di cui hai solo un'impressione. Ashton Blackmore di Black Friars l'ho visto per la prima volta sul cornicione di un palazzo con la Vecchia Capitale ai suoi piedi, una distesa di notte di luci fioche; Sebastian Fane invece camminava per strada con un bastone in mano e la consueta aria scostante. Stephen Eldrige era un bambino troppo geniale per essere tranquillo, Tess Steeval una fanciulla che sorrideva per nascondere i suoi segreti. Li amo tutti, mi mancano sempre, non passa un solo giorno senza che pensi a loro.
  1. Quali sono le condizioni ideali per scrivere?
Tutte. Ho scritto in ogni dove: treno, metropolitana, cucina, camera, studio. Davanti alla televisione che trasmette serie tv a ripetizione, in cucina o in salone mentre tutti chiacchierano. Il silenzio mi distrae, non riesco a combinare nulla ma le persone non devono parlare con me mentre scrivo: quello mi fa impazzire dal nervoso, ho proprio ondate di collera. L'unica condizione è non essere davanti a un panorama o all'aperto. Lì mi distraggo e non riesco a combinare niente.
  1. Ho sempre pensato che la Vecchia Capitale si ispirasse a Roma, ma forse mi sbaglio...
La Vecchia Capitale si ispira a un sacco di posti. Principalmente a Palermo quando si tratta della Cittadella, di Salimarr e dell'omonimo borgo e anche di parte della Cittadella che però principalmente è ispirata a Venezia. Una parte però è sicuramente ispirata alla Roma dei Papi, specialmente le parti riguardanti il Borgo di Maderian. La Sedia del Diavolo, per esempio, esiste davvero, si trova nel quartiere africano.
  1. C'è qualcosa che vorresti cambiare/correggere nei tuoi libri?
Parecchio, niente, non tutto. In fondo se non li avessi scritti così non avrei imparato tante cose. Mi piace il percorso che ho fatto fino al momento.
  1. Credo che a leggerti sia chiaro quanto ti diverti a scrivere. Questo ti ha portato a tagliare/correggere/riscrivere molto, oppure metti il tuo gradimento prima di tutto?
Scrivo in unica stesura, correggo le parti di trama che non collimano a mano a mano che lavoro, ma non riscrivo a meno che qualcuno non mi dica che c'è da ritoccare qualcosa. Già sono prolissa di mio e quando riscrivo tendo ad allargarmi ulteriormente. Ultimamente ho imparato a tagliare ma chi scrive e chi legge non è mai d'accordo su quale parte sia superflua.
  1. Leggeremo ancora della Vecchia Capitale, o il mondo di Black Friars è ormai chiuso?
Come ti dicevo prima i miei personaggi mi mancano tutti i giorni. Ho lasciato l'epilogo della Croce aperto appositamente. Quello è un mondo a cui non sarò mai capace di dire addio.
  1. Stai scrivendo qualcosa, adesso? E se sì (imploro che sia un sì) qualche anticipazione...?
Non posso ancora, mi dispiace. Il prossimo libro uscirà con Mondadori e, non appena ne avrò la possibilità, darò qualche notizia in merito. Posso dirti che la lavorazione, almeno da parte mia, è a buon punto. Tolto questo libro, ho in ballo circa mille cose, che vanno dal romantic suspense al giallo vero e proprio; il mio debole per il romanzo vittoriano penso sia palese e diciamo che sto dando corso anche a quello!
  1. Come inizia e come procede il tuo processo creativo? Inizia tutto da una scena, da un personaggio, da uno spunto...?
Da uno spunto. Due informazioni apparentemente scollegate che vagano nei meandri del mio cervello si legano e la cosa mi pare talmente logica e sensata che non mi spiego come io abbia potuto non pensarci prima.
  1. Come ti è andata con gli editori e cosa consiglieresti agli aspiranti scrittori?
Mi è andata abbastanza liscia perché un'editor della Fazi mi ha trovata on line e per anni ho lavorato sempre con lei andadoci d'accordissimo. Quanto ai consigli sono ancora nella fase di chi ne cerca e non mi sento nella posizione di darne, fuorché uno che riguarda anche me stessa: armiamoci di santa pazienza e di una forte motivazione.
  1. La critica più assurda che ti sia mai stata fatta.
Le critiche non sono mai assurde, hanno perfettamente senso per chi le fa. Però una mi ha fatto ridere di cuore: una ragazza disse che il cognome Weiss di Eloise era voluto per creare un contrappunto con il “Black” di Blackmore. Ho impiegato venti minuti a capire. Non ho voluto deluderla dicendole che il nome e il cognome di Eloise in realtà derivano dal pattinaggio di figura.
  1. Ci sono scrittori che vorresti leggessero i tuoi libri?
Va bene chi li legge già.
  1. Ti è mai capitato di leggere un libro scritto così bene da farti pensare 'Non ce la farò mai'?
Almeno otto volte su dieci quando ne apro uno. Se poi è di Cassandra Clare io aggiungo tra me e me: chissenefrega, l'importante è che li scriva lei così li posso leggere io!
  1. Sinceramente: quali dei tuoi personaggi preferisci? Io adoro Bryce e Stephen oltre l'umana comprensione.
Stephen è il mio tesoro, infatti ho demandato a lui il compito per me molto doloroso di chiudere l'Ordine della Croce. Bryce Vvandemberg è il mio punto di vista nei miei libri, forse quello che per logica mi somiglia di più; poi c’è Axel Vandemberg, come il Draco Malfoy delle mie fanfiction è l’interlocutore privilegiato dei miei momenti cupi.
  1. Mi consiglieresti un libro?
Penny Parrish, in America si vive così, di Janet Lambert, attrice che in seguito si è messa a scrivere libri per ragazzi e che ha prodotto una lunghissima serie di volumi dedicati a questa saga e a quelle “collaterali” alla famiglia Parrish. E' la storia di un'America a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, simile alle vecchie commedie che di tanto in tanto passano in televisione. E' difficile da trovare ma qualche biblioteca dovrebbe ancora averlo.
  1. Domanda un po' Marzulliana ma che ho molto cara: da dove credi che vengano le storie?
Sono archetipi. Preesistono a tutte le maniere di esprimerle, si scoprono e riscoprono ogni giorno, ognuno ne fornisce la sua versione; poi si dimenticano e si ricomincia da capo.

domenica 31 gennaio 2016

Raffles di E. W. Hornung

E dunque, non è facilissimo iniziare a parlare di questo libro. Intanto è la raccolta dei racconti che E. W. Hornung ha scritto sul finire dell'800 su Raffles, un ladro gentiluomo tra i primi nel suo genere. È un peccato inspiegabile che il personaggio e l'autore siano caduti nell'oblio, e c'è da benedire infinitamente CasaSirio per averli portati in Italia, nella traduzione di Chiara Bonsignore.
Da dove potrei cominciare a parlare di questo libro? Dicendo che l'autore era il cognato di Arthur Conan Doyle, e che quest'ultimo adorava e deprecava insieme le opere di Hornung perché “Il criminale non dovrebbe mai essere l'eroe”? Oppure dal personaggio di Raffles, genuinamente sociopatico, nel suo non curarsi della moralità delle proprie azioni, nella curiosità con cui ne osserva le conseguenze? O da Bunny, il suo fedele, per quanto talvolta riluttante, compagno d'avventure?
Mi viene spontaneo partire da Sherlock Holmes, a cui Raffles sicuramente deve moltissimo. È un po' come se Hornung avesse preso le storie di Arthur Conan Doyle per stravolgerle sotto ogni aspetto. La struttura è davvero simile, dopotutto. Raffles e Bunny vivranno insieme, Bunny sarà il fedele aiutante del ladro, nonché colui che trascriverà i racconti delle loro avventure. Ma oltre a questo, Raffles e Bunny non hanno molto a che vedere con Sherlock e il dottor Watson. Raffles è del tutto privo di morale, adora il brivido del furto, si diletta nello sport, è un affascinante manipolatore. Bunny è viziato, debole di carattere, irresponsabile e pigro, ed è evidente che non abbia nulla a che vedere con l'integerrimo Watson, checché ne abbiano fatto i film della serie Rathbone-Bruce. Entrambi vivono al di sopra delle proprie possibilità e, nonostante i loro colpi vadano spesso a buon fine, dopo poche settimane ecco che tornano a indebitarsi. Partecipano alla vita di società londinese, sono iscritti a club esclusivi, giocano d'azzardo. La storia inizia infatti quando Bunny decide di recarsi da Raffles, suo vecchio compagno di scuola e amico, nonostante si siano ultimamente persi di vista, per esporgli la sua disastrata situazione economica alla ricerca di aiuto. Solo che Raffles è ancora più spiantato di Bunny. Ed è così che Raffles decide di tirarsi dietro l'amico per svaligiare una gioielleria, tacendogli inizialmente la vera natura del proprio piano.
Dicevo poc'anzi che mi viene spontaneo paragonare Raffles a Sherlock Holmes. Ecco, mentre le storie su Holmes puntano più sulla stranezza del caso e il lettore brancola nel buio fino all'improbabile soluzione finale, qui partecipiamo con Raffles ad ogni tappa dei suoi piani, che non sono neanche particolarmente machiavellici. Sono raffinati, ma semplici e plausibili. Un'altra cosa che mi porta a preferire Raffles a Sherlock (e a me Sherlock piace un sacco) è che i personaggi hanno davvero importanza. Non sono pedine all'interno della narrazione, anche se sono pochi a poter vantare una vera e propria caratterizzazione.
E potrei parlarne ancora, ma svelerei troppo, visto che si tratta di una raccolta di racconti e non di un romanzo. Lo consiglio visceralmente, soprattutto a chi ama Sherlock Holmes. Spero vivamente che prima o poi a qualcuno venga in mente di tirarne fuori una serie tv.

sabato 30 gennaio 2016

Codex Gilgamesh di Uberto Ceretoli

Codex Gilgamesh di Uberto Ceretoli, edito ad Dunwich Edizioni nel 2013, libro che mi viene spontaneo etichettare come un'estrema figata. E volendo potrei anche chiuderla qui.
Immagino abbiate presente quanto e più di me cosa si intenda per “steampunk”. In un'ambientazione storica, solitamente vittoriana, si immagina uno sviluppo tecnologico assurdamente evoluto e a mio dire coreografico, e ci si destreggia nell'immaginare in che modo scienza e storia interagiscono in dato contesto. Arti meccanici e cappelli a cilindro, diciamo.
Ecco, questo è un libro steampunk, genere di cui sono colpevolmente ignorante. Ma passiamo alla trama.
Siamo nel 1890 e c'è Victor von Frankenstein che, col suo fidato assistente Jack, uno schizofrenico che si trasforma in serial killer quando indossa una maschera da pipistrello, depreda antichi cadaveri per riportarne in vita i proprietari. E riporta in vita Da Vinci, così come ha riportato in vita Cleopatra, per farne i suoi collaboratori per un piano più ampio. E già qui potrei aver detto abbastanza.
Ma no, c'è Eudora, espertissima cacciatrice di Sua Maestà, che ha un conto in sospeso con Frankenstein e che è incaricata di catturarlo.
E poi c'è Kentigern, rampollo di un ramo cadetto della famiglia Gordon, nobiltà scozzese, che vorrebbe studiare archeologia e dimostrare che i micenei erano vichinghi, e invece l'ostinato padre obbliga a studiare ingegneria per poter ridare lustro al nome della famiglia, poiché l'archeologia è una scienza nuova e ancora poco rispettata, mentre l'ingegneria è una materia “vera”.
E c'è una spedizione archeologica capitanata da Sir Loftus, e in qualche modo, per ovvi motivi che non sto a spiegare, la storia si ripiegherà lì, con tutti i suoi personaggi. E tralasciando le trovate scientifico-meccaniche, che ce ne sono certe di veramente ganze, e tralasciando l'ambientazione vittoriano-steampunk che rende davvero bene, i personaggi sono la parte migliore del libro. Un po' perché hanno tutti un loro senso, sono ben caratterizzati, sono coerenti con se stessi. Da Frankenstein a Eudora, da Jack a Kentigern. Perfino da Leonardo a Cleopatra. Ma non è “solo” questo, è che alcuni di loro sono personaggi con cui è fantastico intrattenersi letterariamente, perché sono estremamente interessanti e non vedi l'ora di vederli fare qualsiasi cosa, riuscirebbero a entusiasmarti anche quando vanno, chessò, a prendersi un gelato, o a comprarsi un cappello. Sono ganzi, e non semplicemente per fare simpatia o in modo strumentale alla trama. Sono ganzi e basta. Sto togliendo spazio alla storia, me ne rendo conto, ma giuro che è una storia davvero ben congegnata, che si prende sul serio. E ci sono degli interrogativi gestiti alla perfezione, con un paio di piste sbagliate che si prendono alla leggera, e poi PEM.

Non posso fare a meno di consigliarlo violentemente. Di brutto.

Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi

È un po' che fisso la copertina chiedendomi in che modo iniziare a parlare della storia che contiene. Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi, edito della Zona 42, la loro prima pubblicazione italiana.
Racconta una storia che non è facile descrivere, e non soltanto per la complessità che si svela verso la fine, ma per l'atmosfera. La cosa più bella di questo libro è l'atmosfera, e non credo che riuscirò a renderle giustizia. Incerta, nebbiosa, onirica. Un'atmosfera un po' Eternal sunshine of a spotless mind (mi rifiuto di usare il titolo italiano) e un po' Inception, perché ogni volta che si parla di sogni non sai mai davvero dove ti trovi, cosa stai leggendo.
Ma veniamo alla trama.
Tutto ha inizio nel 2016 col risveglio di Dorian, il protagonista che è rimasto addormentato per dodici anni, al centro di un particolarissimo programma spaziale volto alla raccolta di dati sull'universo. A capitoli alterni, ci viene raccontato di quando Dorian è stato scelto, delle sue speranze di partire fisicamente per lo spazio nel 2003, della sua ragazza Simona, della reazione dei suoi familiari quando ha ricevuto la lettera dall'organizzazione del progetto, e poi di quello che accade nel presente del libro, il 2016. Dorian che torna alla vita di tutti i giorni, che si guarda intorno in un'Italia che gli sembra sempre uguale, che si addormenta e non si trova.
Il libro è diviso in tre parti, così come il titolo. C'è la prima parte dedicata a Dorian, la seconda parte che indaga le tesi scientifiche che supportano il progetto e che, sarò sincera, sono di una plausibilità disarmante. Viene perfino da crederci, nel corso della lettura, salvo poi ricordare che stai leggendo un romanzo di fantascienza. Dicevo, la seconda parte esplica le tesi scientifiche, ma non in modo pedante e artificioso. Voglio dire, la funzione della seconda parte è quella, ma il metodo è reso interessante dall'interazione di un paio di personaggi.
Mi rendo conto che sto svelando troppo, quindi mi fermo. Non parlerò del legame che intercorre tra le varie parti del libro, di Dorian e del programma, o dei personaggi centrali in Trovami, della particolarissima sensazione che si prova in Sognami.
Lo consiglio? Cristo, sì. Estremamente. Di brutto, di cattiveria. Il modo in cui la teoria scientifica si cuce a una trama che se non è solida è soltanto per scelta, ma supporta elasticamente tutto ciò che avviene. Lo stile che dosa con una precisione chirurgica la descrizione. E ribadisco, l'atmosfera che ti lascia a ondeggiare sulla narrazione.

Mi è piaciuto un sacco. Punto. 

Le stanze buie di Francesca Diotallevi

Le stanze buie di Francesca Diotallevi, edito da Mursia nel 2013.
La storia inizia con il protagonista, Vittorio, che nel 1904, si reca a una vendita all'asta dei beni di una famiglia per la quale ha lavorato quando era ancora un giovane e promettente maggiordomo. Ora, anziano e un po' claudicante, si ritrova a comprare per una cifra esorbitante un carillon e a straziarsi di ricordi fin dal tragitto in macchina che lo riporterà nella casa in cui presa servizio.
Da qui in poi sarà soprattutto una retrospettiva, sempre in prima persona, delle vicende che l'hanno portato in quella casa, quella del conte Amedeo Flores, dalla moglie Lucilla e dall'adorabile figlioletta Nora. Vittorio è stato richiamato come maggiordomo in quella casa per tenere fede al testamento dello zio, che pur non avendolo mai incontrato prima, lo ha sempre mantenuto agli studi, aiutando la madre, sua sorella, mandandole dei soldi ogni mese.
La casa del conte Flores è silenziosa, lugubre, spenta. I servitori sono pochi e malamente amministrati. Vittorio è un perfezionista, un orgogliosissimo pignolo che cerca sin dall'inizio di mettere in riga tutti gli altri, un altezzoso maggiordomo fedele ai suoi saldi principi. Un tipo freddo, scostante, razionale. Però quella casa gli impedisce di essere razionale fino in fondo. Ci sono strani rumori di notte, il campanello di una stanza vuota che suona la notte, nonostante sia disabitata da anni e sempre chiusa a chiave. Apparizioni e scricchiolii, misteri, domande...
Uno degli aspetti più affascinanti di questo libro è l'atmosfera. Quel profumo grigio e nebbioso, quell'aria piacevole e inquietante da romanzo gotico inglese... è straordinario il modo in cui l'autrice è riuscita a riprodurla. E poi i personaggi, la loro fedeltà a se stessi e alla propria caratterizzazione. I piccoli gesti che si ripetono, che li descrivono senza ridondanza...
Un romanzo che non sembra figlio di questo tempo, che ha in sé il ritmo e la voce di un classico. Intenso, pregno, eppure così ben dosato.
Di quelli che si consigliano da soli.


Intervista ad Aislinn

Anche questa, come quella di Tarenzi, è un'intervista un po' vecchiotta. Angelize II era appena uscito, quando ho chiesto ad Aislinn di rispondere a “un paio” di domande. Considerata la mole spropositata, è incredibile che non mi abbia mandata a quel paese.
Aislinn è una ragazza adorabile, che prepara biscotti a forma di ali per le presentazioni dei suoi libri, sorride un sacco e manda emoticon abbracciose. Poi dentro ha l'Armageddon e angeli che si massacrano. Meraviglioso dualismo.




Una piccola presentazione?

Salve, sono Aislinn e ho un problema: scrivo... (in coro: *Salve, Aislinn*).
Ehm, a parte gli scherzi, sono una ragazza thirtysomething che per mestiere scrive, legge, traduce, corregge. Fieramente piemontese trapiantata in terra fintolombarda, nel tempo libero mi comporto in modo irresponsabile, ascolto musica, canto a squarciagola, parlo con gli dèi, cucino biscotti e passo il tempo con le persone che amo.

Ti andrebbe di presentarti anche come 'lettrice'? Libri preferiti, genere di riferimento...

Prediligo – che sorpresa, eh?! – l'urban fantasy, ma leggo più o meno di tutto, sia in italiano sia, sempre più spesso, in inglese, vista la quantità di bei libri che in Italia non vengono tradotti. Onnivora con pila eterna di volumi in attesa sul comodino e cronica mancanza di tempo – anche considerato che leggo molto anche per lavoro, come consulente editoriale, redattrice, traduttrice e un po' tutto quello che si può fare per agenzie e editori –, tra i miei libri sacri posso citare, in ordine sparso, Dracula di Stoker, Il Signore degli Anelli di Tolkien, World War Z di Max Brooks, L'ombra dello scorpion e It di Stephen King, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde, Buona Apocalisse a tutti! di Gaiman e Pratchett. E se devo citarne anche solo uno italiano, dicoGodbreaker di Luca Tarenzi.

Angelize parla di angeli, ma quello che ne viene fuori non coincide affatto con l'immaginario convenzionale. A quali figure angeliche ti sei ispirata?

Inizialmente ho cercato di «rimescolare» un po' l'immagine classica degli angeli, quella che oggi viene descritta ai bambini per insegnare loro a pregare l'angelo custode: mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se, anziché proteggere le persone, le avessero ingannate. D'altronde, nella Bibbia stessa gli angeli sono guerrieri, distruggono intere città... non sono esattamente figure pacifiche. Nel mio romanzo sono figli di un Dio che disprezza la carne e predilige lo spirito: non hanno sensazioni come il tatto o il gusto e sono incorporei. Alcuni si aggrappano a questa «purezza»; altri cercano di liberarsene per incarnarsi al posto di esseri umani e sperimentare la nostra vita. Per quanto riguarda le atmosfere, poi, le mie due storie a tema angeli preferite sono senz'altro il già citato Buona Apocalisse a tutti! e il fil Dogma di Kevin Smith. Insomma, l'urban fantasy mi piace tosto e con ironia.

Haniel – a quanto ho capito, personaggio uber-preferito di buona parte dei lettori – è uno spirito maschile nel corpo di una ragazza. Si è trattato di una scelta consapevole o di un personaggio che ti è sbucato in testa così? Ed è stato difficile raccontarlo?

Haniel si divide la palma di preferito con Hesediel, a essere sincera (cosa che un po' mi ha stupito. E dire che me lo aveva pure detto Luca Tarenzi, che, infatti, ha sempre preferito proprio Hese... non gli avevo creduto :-P), ma credo sia comunque in vantaggio come numero di «fan» (e di «fangirl» ^_^). Haniel è il primo personaggio che mi è venuto a trovare, addirittura nel racconto che ha fornito il nocciolo del romanzo, anche se lì era un «protoHaniel» meno giovane e meno complesso. Quando ho iniziato Angelize, si è presentato in scena a modo suo, sconvolgendo gli altri personaggi e anche me. Non tanto per la sua situazione: a lui non frega niente di quale corpo abbia temporaneamente, il suo comportamento non varia di una virgola, il che crea non pochi imbarazzi nelle altre persone. La parte complessa è stata usare il suo punto di vista: le prime volte è stato un vero giro sulle montagne russe, tanto che poi ho dovuto limare molto le sue pagine (e d'altronde tutto il romanzo è passato attraverso diverse riscritture e revisioni). Hani ha la tendenza a partire per la tangente inseguendo i suoi pensieri, a mescolare passato e presente, a «spegnersi» e isolarsi dal resto... ho dovuto tenerlo a bada per mostrare tutto questo senza che al lettore (e a me!) venisse mal di testa. E, oltre tutto, Haniel non ammette nemmeno con se stesso molto di quello che prova, quindi ho dovuto mostrare tutto senza mai dire nulla in maniera esplicita, in un emblematico «show, don't tell»... Ma, una volta prese le misure del personaggio, tutto è diventato naturale per me. Fin troppo.
In maniera un po' inquietante, in effetti.
Quello che amo di lui è che non è il classico «duro dal cuore tenero»: è un matto dal cuore fragile. Che nel dubbio si corazza con spranghe e tirapugni.

A quale dei tuoi personaggi ti senti più vicina?

Tra quelli di Angelize, direi Haniel. Per certe insicurezze, per certi dark sides. Haniel non riesce a credere che anche lui possa trovare un po' di felicità. Nei miei momenti peggiori, lo penso, e ancora di più l'ho pensato in passato, anch'io. Per fortuna, gli dèi e le persone care mi sono accanto per scacciare quei momenti.

Gestisci un blog, una pagina fb e rispondi spesso su Ask. Hai instaurato un dialogo piuttosto fitto coi tuoi lettori. La figura dello scrittore è cambiata nel tempo, e forse lo è anche il suo rapporto coi lettori.

Ormai chiunque è potenzialmente raggiungibile da chiunque in pochi secondi, grazie a internet. E qualsiasi lettore che voglia fare i complimenti o coprire di insulti l'autore di un libro appena letto non deve faticare molto... Per quanto mi riguarda, mi fa piacere quando un lettore mi contatta attraverso il blog o qualche social: sono mezzi che mi permettono di ricevere un feedback a quello che scrivo e anche di conoscere un sacco di persone interessanti, che arricchiscono la mia vita: quasi tutte le mie migliori amiche le ho conosciute prima proprio tramite Anobii o Facebook. Naturalmente, non tutte le persone che si incontrano on line sono gradevoli, ma, fortunatamente, essere entrata a contatto con il web 2.0 già da adulta, per una pura questione anagrafica, fa sì che non abbia mai avuto particolari problemi nel tenermi lontano dagli utenti molesti.
Per quanto riguarda la figura dello scrittore oggi, mi sembra che l'immagine dell'autore rinchiuso in un eremo, tra nuvole poetiche e lontano dai comuni mortali, sia alquanto anacronistica ormai, e la confidenza che forse certi scrittori non volevano dare ai lettori, i lettori stessi se la sono presa da soli... d'altronde gli scrittori sono esseri umani, e qualsiasi tentativo di negarlo e di porsi «al di sopra» rischia di sconfinare nella presunzione o nell'ingenuità, a essere gentili. Come si può sperare di raccontare qualcosa sulle persone, se ci si pone al di sopra di esse? Per tornare al punto: se qualcuno mi contatta perché interessato a quello che ho scritto, comunque, mi sembra solo giusto e doveroso rispondere. Basta usare un minimo di buon senso, per far funzionare le cose, come in qualsiasi interazione umana.

C'è una certa esterofilia, soprattutto per i paesi anglofoni, nella letteratura italiana. Come mai hai deciso di ambientare Angelize in Italia? Ed è stato così fin da subito?

Sì, Angelize è nato a Milano ed è sempre rimasto legato a quella città. Hai ragione nel dire che prevale l'esterofilia nelle ambientazioni, perché un John o una Mary che si muovono nel Maine o a New York o a Londra sembrano molto più «fighi» di un qualsiasi Marco o Alessandra in Italia... Io, però, non concordo. Quando scrivo, voglio che nasca una storia che solo io avrei potuto raccontare, quindi voglio parlare di quello che mi colpisce, di quello che vivo, di come vedo ciò che mi circonda – ed ecco Milano, ecco i personaggi italiani immersi in un contesto italiano. Un contesto che, a mio parere, non ha nulla di inferiore o di meno interessante rispetto alle famose città straniere che si leggono in altri libri, anzi. Non escludo di utilizzare in futuro anche ambientazioni estere, naturalmente: non rifiuto nulla a priori. Ma quando lo farò, sarà perché quella certa storia non poteva che essere ambientata in quel certo luogo, così come Angelize sarebbe stato molto diverso se non fosse stato ambientato a Milano.

Ti va di parlare del 'processo creativo' dietro le tue storie? Come iniziano, come si evolvono, quando capisci che è tempo di iniziare a scrivere?

Tutto comincia da un'idea ancora abbozzata, il classico «che cosa succederebbe se?...», lo spunto di partenza, insomma, qualcosa che mi colpisce e comincia a frullarmi per la testa e a cercare altre idee, altre suggestioni, altri spunti con cui combinarsi per creare la trama, come se stessi costruendo qualcosa con il Lego, senza ancora sapere cosa – un processo che può richiedere pochi giorni così come anni. Quando comincio a scrivere, devo avere in testa almeno l'idea di base, con l'inizio della storia, il fatto scatenante, le prime scene; almeno un personaggio che, a furia di rimuginare, mi ha colpito, si è presentato e ha cominciato a farsi conoscere abbastanza bene da permettermi di entrare nel suo punto di vista; e, infine, la conclusione presunta – che magari cambierà, prima che io ci arrivi davvero, ma almeno mi fornirà una direzione verso cui tendere. Per il resto, preparo scalette frammentarie man mano che proseguo, con alcuni punti chiave che devo toccare, ma sono scalette soggette a modifiche, aggiustamenti e cambi in corsa, principalmente perché, di solito, i personaggi cominciano a fare di testa loro e si fanno venire idee che io non avevo considerato, imprimendo alla storia una direzione imprevista. Con questo non voglio fare discorsi pseudoromantici da «invasata dalle Muse»: in ogni forma artistica c'è qualcosa di divino, secondo me, ma non è quello di cui volevo parlare ora. Intendo solo dire che più i personaggi sono vivi nella mia mente, più mi immedesimo in loro, più è facile che scrivendo siano le loro stesse parole, i loro pensieri e la loro personalità a suggerirmi svolte ed eventi che non avevo previsto.

Sarei tanto, tanto lieta se potessi anticipare qualcosa di quanto stai scrivendo adesso.

Sto lavorando a una «trilogia atipica» urban fantasy, a due romanzi fantasy in ambientazione storica e... be', a un altro progetto che è ancora troppo poco delineato per parlarne meglio. I due fantasy storici sono uno stand-alone ambientato nel XVI secolo in varie località europee, che ha a che fare con la mia passione per il folklore, e un romanzo, che potrebbe avere una continuazione, ma che per ora è uno stand-alone, ambientato invece nel Mediterraneo diversi secoli prima di Cristo. La trilogia invece è «atipica» perché si tratta di storie che hanno la stessa ambientazione, una città piemontese, ma protagonisti ed elementi fantastici diversi: i personaggi principali del primo sono comparse del secondo e viceversa, mentre il terzo volume unisce tutti quanti. I primi due volumi sono autoconclusivi, comunque, pertanto non sarà necessario leggerli entrambi e in ordine, e vorrei che anche il terzo stesse in piedi da solo, nonostante il fatto che, com'è ovvio, conoscere già i personaggi aiuterà a cogliere meglio i vari riferimenti. Che altro posso dire? Ah, sì, grazie al mio amico Mauro, uno dei miei betamartiri, ovvero i lettori cui passo le mie prime stesure per un parere, la trilogia ha il nome non ufficiale di «metallari contro mostri» XD

I vampiri sono stati al centro di un tornado editoriale fino a pochi anni fa. Come credi che ne sia uscita la figura del vampiro, e perché ti va di scriverne?

Ah, i vampiri! Quindi sveliamo che ho una storia su di loro per le mani, eh? ^^
Be', dal tornado di cui parli sono usciti come è nella loro natura: da immortali. Possono venire ridotti ad adolescenti innamorati, privati della loro pericolosità, dei loro aspetti bestiali... ma prima o poi riemergono sempre, e ciò che resta alla base di tutto è la loro essenza: uomini ma non più umani, mostruosi ma invisibili e mescolati alla gente, simili a noi, ma alieni... Insomma, non importa quanti Twilight escono, il fascino del vampiro resta, così come i motivi per scriverne e rielaborarne la figura.
Per quanto mi riguarda, amo i vampiri dai tempi della mia prima lettura di Dracula (1995, avevo tredici anni), in seguito alla quale ho iniziato a leggere tutto quello che trovavo sul folklore e i miti legati a questa figura. Ho cominciato a scrivere una storia su di loro già dieci anni fa, perché... be', non li trovavo da nessuna parte come li volevo io. E no, non sono vampiri che brillano. So che presentare un romanzo di vampiri oggi è un rischio – chi dirà che non se ne può più, chi dirà che è una moda... – ma sono discorsi che non mi interessano. È la storia in sé che conta, non le chiacchiere di questo tipo. E dentro quella storia c'è tutta la mia passione, tanti dei miei incubi, alcuni dei personaggi che amo di più tra quelli che ho creato. Perciò, a suo tempo leggerete e vedrete...

Quand'è che ti sei detta 'Sì, ok, credo che diventerò una scrittrice'?

Ero adolescente, non ricordo di preciso quando, ma probabilmente avevo circa quindici o sedici anni. Anche se già scrivevo da qualche anno, è più o meno intorno al 1998 che ho iniziato a lavorare davvero su una lunga storia che poi avrei portato a termine, a scrivere insomma con continuità. Non c'è mai stato nient'altro che io sia stata così sicura di fare come scrivere, nient'altro mi ha accompagnato così a lungo nella mia vita.

Da insider, che idea ti sei fatta del fantastico in Italia? E del rapporto tra editori e lettori?

Ammetto di non essere particolarmente ottimista in merito: in un Paese in cui i lettori sono una minoranza, i lettori di fantastico sono una minoranza nella minoranza... non parliamo poi di quelli che vanno oltre l'occasionale fantasy o paranormal romance di moda. Gli editori inseguono il colpo grosso, il caso, facendo i conti con i numeri ben poco incoraggianti e tartassati dalla crisi che ha travagliato un po' tutti, e spesso preferiscono non rischiare. Per quanto riguarda gli scrittori di fantastico di casa nostra, ci sono alcuni autori validi, che devono faticare tantissimo per trovare un loro spazio – e parlo per esperienza personale: prima che Fabbri avesse il coraggio di credere nei miei urban fantasy ho ricevuto la mia quantità di rifiuti e vissuto le delusioni di qualsiasi altro «aspirante». Tutto questo, però, non vuol dire che l'unica possibilità sia rassegnarsi, anzi. Siamo scrittori, siamo lettori, quindi dobbiamo tenerci stretta la nostra follia di sognatori e continuare a fare quello che amiamo – scrivere le storie che solo noi possiamo scrivere, meglio che possiamo, cercare buoni libri e diffonderli tramite il passaparola. E continuare a insistere, con le case editrici, con i nuovi progetti coraggiosi come Acheron Books, che pubblica solo storie di qualità rivolte al mercato internazionale. Insomma, se il gioco si fa duro, è il momento di impegnarsi il doppio per giocare.

Il mondo dei libri è bello perché è strano. Quali sono le critiche/osservazioni più assurde che ti abbiano rivolto finora?

Direi le critiche a scene che non erano state apprezzate... e lo credo bene, perché il lettore in questione citava scene che nel libro non ci sono affatto. Giuro.

Qualche consiglio per chi vuole scrivere?

Leggere tanto. Di tutto. E se volete scrivere fantastico, imparare l'inglese e leggere quello che esce all'estero e non arriva da noi. Oltre a questo... scrivere. Scrivere con costanza, anno dopo anno e storia dopo storia. L'esperienza della pratica continua, dello sfidare i propri mezzi e del tentare strade nuove, non la si può conquistare con scorciatoie. Va benissimo leggere i manuali – l'ho fatto e continuo a farlo anch'io, perché be'... parlano di qualcosa che amo, no? E qualche spunto interessante, qualche suggerimento utile si trova in quasi tutti. Ma, allo stesso tempo, non fatene una malattia: se non riuscite a scrivere un capitolo perché a metà vi scoraggiate e lo mollate da parte pensando di non riuscire a seguire punto per punto tutti i consigli di tutti i manuali possibili e immaginabili... non imparerete niente. Quando iniziate una storia, concentratevi sul concludere la vostra prima stesura: poi ci sarà tempo per rivedere, sistemare, riscrivere e correggere. E siate flessibili. Se siete bravissimi tecnicamente ma non avete niente da dire, se le vostre pagine restano fredde e senza passione, nessuno show don't tell vi salverà, così come se avete un'idea notevole, ma non sapete esprimerla (vi perdete in infinite spiegazioni senza portare avanti la trama, per esempio, e magari sbagliate pure i congiuntivi), l'occasione di raccontare qualcosa di bello sarà sprecata. Infiammatevi per la vostra storia, innamoratevi dei vostri personaggi: il lettore quell'amore lo sente.

Infiniti ringraziamenti per esserti prestata alle mie infinite domande. Spero che ci incontreremo presto, sia in cartaceo che di persona.

Lo spero anch'io! E grazie a te per la chiacchierata ^___^